Valle Bavona - Tranne che a San Carlo, negli altri villaggi tuttora non arriva la corrente Eppure le sue centrali sono tra le più produttive della Svizzera. «Negli anni ’50 costava troppo allacciarsi alla rete»
La Valle Bavona è al buio. O quasi. Nella dozzina di villaggi (detti terre) che compongono questo lembo alpino che dal Ticino si incunea tra Vallese e Alto Ticino, l’elettricità portata da una tradizionale rete di alimentazione con tralicci o cavi interrati è un optional da oltre 70 anni. E pensare che la Bavona è una delle valli ticinesi più prolifiche per quanto riguarda l’elettricità prodotta dalla forza dell’acqua, ma a eccezione di San Carlo, l’ultima frazione della valle a 950 m/slm, la luce nelle case e nelle stalle dei nuclei che compongono la Bavona arrivava un tempo dalle lanterne a petrolio e dalle candele e oggi dal gas o dai pannelli fotovoltaici. Le condotte realizzate intorno al 1950 dalla società elettrica Sopracenerina (SES) e poi cedute alle OFIMA, le Officine Industriali della Maggia SA, società partnerwerk che tutt’oggi utilizza le forze idriche della Maggia e dei suoi affluenti fino al lago Maggiore per alimentare le sue centrali, producono annualmente 1265 GWh (gigawattora), una delle più importanti quote energetiche del Ticino e della Svizzera.
Ma appunto in Valle Bavona, dove ci sono ben tre centrali OFIMA (Robiei, Bavona e Cavergno) nemmeno un watt accende gli interruttori delle abitazioni, che per inciso sono rustici, in parte ristrutturati ma oramai tutte residenze secondarie, case di vacanza o punti di appoggio per allevatori di bestiame e attività agricole e turistiche (affittacamere e ristorazione): i bavonesi doc d’inverno infatti si ritirano sul fondovalle o nel Locarnese.
«Mentre gli allora Comuni di Cavergno e Bignasco accettarono e rinnovarono la concessione di fornitura elettrica con la SES, che allora distribuiva l’energia, le altre terre della Bavona restarono fuori dagli accordi», ci spiega Fausto Rotanzi, per anni segretario comunale a Cavergno e poi a Cevio dopo l’aggregazione al capoluogo dell’Alta Vallemaggia. Rotanzi, da noi incuriosito, è andato a scartabellare negli archivi comunali e patriziali di Cevio e Cavergno per cercare un documento che certificasse questo «rifiuto» al progresso dei bavonesi ma, a parte qualche accenno alla realizzazione della strada carrozzabile fino a San Carlo per realizzare la centrale elettrica e la funivia, negli atti pubblici non si parla esplicitamente delle motivazioni di questa esclusione dalla «civiltà illuminata».
Una scelta ecologista antesignana, quella dei bavonesi quando ancora, negli anni ’50 del secolo scorso era iniziata la corsa all’oro blu e non si parlava certo di tutela dell’ambiente? Non proprio, ci spiega Alfredo Martini, ex sindaco per 20 anni di Cavergno e poi per due anni alla testa dell’Esecutivo di Cevio, quando nel 2006 la Valle Bavona fu aggregata al capoluogo dell’alta Valle Maggia. «La strada carrozzabile della Valle Bavona fu costruita dopo il 1950, in concomitanza con i lavori di realizzazione della centrale idroelettrica di Robiei. La SES, che allora gestiva la rete elettrica della regione, e quindi le OFIMA, che gestirono la produzione energetica, proposero di realizzare, oltre alla strada, le canalizzazioni per la rete elettrica, ma gli abitanti della Valle Bavona si opposero. Più per motivi economici che altro: la valle viveva di allevamento, agricoltura e pastorizia, non c’erano molte risorse economiche per sostenere anche in minima parte i costi di urbanizzazione.
I canoni per lo sfruttamento delle acque che alimentavano le centrali elettriche, oltretutto, prendevano più che altro la strada del Cantone o delle partnerwerk delle aziende energetiche svizzero-tedesche, dunque rimaneva ben poca cosa dell’oro blu ai villaggi. Così, tranne che a San Carlo, dove appunto si stava realizzando anche la funivia di Robiei, le altre terre bavonesi scelsero di rinunciare alla realizzazione della rete elettrica, dando ai villaggi quell’immagine di un contesto civilizzato ma “fuori dal mondo” che conserva ancora oggi», ricorda Alfredo Martini.
La Valle Bavona era probabilmente già abitata verso l’anno Mille; le catastrofi naturali (alluvioni, frane, scoscendimenti) indussero però i suoi abitanti ad abbandonarla quale residenza stabile. Lungo il fondovalle del fiume, affluente della Maggia, si trovano dodici villaggi posti più o meno a un chilometro l’uno dall’altro. In ordine ascendente si tratta di Mondada, Fontana, Alnedo, Sabbione, Ritorto, Foroglio, Roseto, Fontanellata, Faedo, Bolla, Sonlerto e San Carlo. Sono chiamati «terre», da cui il nome di «terrieri» per gli abitanti. I nuclei si presentano, generalmente, come gruppi compatti di case e stalle costruite secondo schemi dettati dalle necessità del lavoro quotidiano e dalla configurazione del terreno, con dimensioni modeste, semplicità e funzionalità essenziali. Così presente nei romanzi di Plinio Martini, lo scrittore del quale si celebra quest’anno il centenario della nascita, che ben descrive questi luoghi aspri, all’apparenza inospitali e rimasti praticamente immutati, che testimoniano la continua lotta dell’essere umano per convivere con l’ambiente che lo circonda.
La Valle Bavona è iscritta dal 1983 nell’Inventario federale dei paesaggi, siti e monumenti naturali d’importanza nazionale e inserita dal luglio del 1966 nella Legge federale sulla protezione della natura e del paesaggio. Nel 1990 è stata istituita la Fondazione Valle Bavona (www.bavona.ch) che oltre alla gestione del finanziamento degli interventi di salvaguardia e valorizzazione del patrimonio territoriale, si occupa anche di applicare il Piano regolatore – varato nel 1985 – con un ruolo di consulenza e sorveglianza degli interventi.