Verità irriverenti su un cambiamento epocale

by Claudia

Senza giri di parole e senza metafore Dick Marty nel suo nuovo libro racconta una vita al servizio della Giustizia, lo abbiamo intervistato

«Come un lungo fiume, la vita è affascinante solo se percorsa da tanti meandri, diceva Chen Ziang, un poeta cinese del VII secolo. Quasi giunto a quel momento (non so quando, ma in ogni caso sempre troppo presto), in cui ti si notifica che il tuo biglietto è scaduto, mi dico che la mia vita raramente ricorda un lungo fiume tranquillo tra amene contee». È questo l’incipit del libro Verità irriverenti (Casagrande) di Dick Marty che verrà presentato domani, martedì 14 novembre, nella hall del LAC (18.00), un libro che completa, quasi in un crescendo, Una certa idea di giustizia (2018) e Sous haute protection (2023). I primi due li ha scritti in francese, questo, invece, in italiano, ed è un libro che ci porta dietro le quinte dell’uomo pubblico che al perseguimento della Giustizia ha dedicato tutto sé stesso per svelarci non solo le idee, ma anche i sentimenti.

Dick Marty, quanto c’è in questo terzo libro, del bisogno personale di mettere ordine nella sua vita e quanto, invece, del desiderio di lasciare traccia del suo pensiero e della sua azione?
Lasciare una traccia certamente no. Conosco abbastanza bene la storia per sapere che le nostre gesta non lasciano tracce o, se le lasciano, sono quasi sempre mal interpretate. Piuttosto mi viene in mente l’Ecclesiaste: vanità delle vanità, tutto è vanità. In realtà la scrittura, che prima non faceva parte delle mie priorità, è stata una risposta a eventi traumatici, una specie di autoterapia. La prima pubblicazione (Una certa idea di giustizia) è nata un po’ per caso: era una rivisitazione e una riflessione su eventi che avevo vissuto e che l’insistenza di un conoscente editore ha trasformato in un libro. Tra i lettori ho immaginato i miei nipotini che avrebbero così conosciuto meglio il loro nonno. Ho poi pensato anche a chi mi ha sostenuto nelle varie battaglie politiche (ho raccolto sostegni in quasi tutte le aree politiche), quasi presentassi loro altri aspetti che forse non conoscevano. Potranno così dire di aver fatto la buona scelta, oppure di essersi completamente sbagliati.

La sua vita passa dal Max-Planck-Institut a Friburgo in Brisgovia e approda, negli anni Settanta-Ottanta, in Ticino. Dick Marty diventa procuratore pubblico sopracenerino. Un passo indietro?
L’esperienza in Germania è stata indubbiamente fondamentale. Ho conosciuto un nuovo mondo, quello della ricerca ad alto livello con studi per giuristi ancora molto poco diffusi da noi (criminologia, medicina e psichiatria legale). Poi ho ricoperto un posto di ruolo in un prestigioso Istituto di ricerca con la porta spalancata per una carriera accademica. Inoltre in quegli anni, in Germania, si aveva la sensazione di vivere la storia in diretta, con Willy Brandt e la Ostpolitik. Dopo qualche anno, ho però sentito che mi mancava qualcosa: il contatto immediato con la realtà. C’erano, in più, certi aspetti del mondo della ricerca che cominciavano a infastidirmi: invidie, false amicizie, cordate di persone che si citavano a vicenda per ottenere un ranking migliore. Provvidenziale giunse una telefonata di Ferruccio Bolla per segnalarmi la possibilità di accedere alla funzione di magistrato al Ministero pubblico. Telefonata tra le più preziose mai ricevute. Dunque, assolutamente no, non fu un passo indietro bensì l’inizio di una nuova affascinante esperienza.

Il procuratore Marty passa poi alla politica. Piergiorgio Mordasini la definì «un magistrato prestato alla politica». Non c’era, in questo prestito, il rischio di un mondo in bianco e nero, o giusto o sbagliato?
Non penso proprio che il magistrato giudiziario veda le cose esclusivamente in bianco e nero. Direi che questa è piuttosto la caratteristica di una politica che si sta facendo sempre più dogmatica e polarizzata, anche molto più cattiva. Una volta mi sono lasciato scappare una battuta – invero troppo impertinente, ma che aveva un certo fondamento – e dissi che in sei anni di politica avevo incontrato più farabutti che in quindici da procuratore. Esagerato, certo, ma è indubbio che nelle mie vesti di magistrato giudiziario ho sì visto la faccia oscura della società, ma anche molta umanità, sotto forma di tragedie, drammi familiari, miseria sociale. Sono queste realtà ed esperienze che maggiormente mi sono rimaste in mente e alle quali penso spesso, ricordando volti, voci e vicende. No, la verità non è quasi mai bianca o nera, c’è tutta una gamma di grigi ed è ciò che rende questo lavoro molto difficile, ma tanto avvincente.

Leggendo Verità irriverenti si ha l’impressione che lei si sia tolto qualche sassolino dalle scarpe. L’aggettivo plurale fa però pensare anche a molteplici verità e non solo alle «sue» verità e poi, molte di queste verità lei le ha dette e documentate negli anni. Perché raccoglierle adesso quasi fossero una summa?
Quasi come un fil rouge in questo libro racconto anche la vicenda recente che per quasi un anno e mezzo ha provocato uno spiegamento di polizia per la mia protezione come mai era avvenuto in Svizzera. La protezione c’è stata, certo, ma è mancato l’essenziale: l’inchiesta per smascherare i sicari e i mandanti, di cui c’erano tracce evidenti. No, non è un regolamento di conti, penso solo che quanto racconto vada oltre la mia persona perché concerne il funzionamento delle nostre istituzioni. Ho sempre ritenuto che quando si viene a conoscenza di fatti rilevanti di interesse pubblico vi sia un dovere morale di testimoniare. Uno dei mali peggiori della nostra società è proprio l’indifferenza. Questo libro è stato anche l’occasione per un momento di riflessione sulla nostra democrazia, la nostra neutralità, la nostra politica internazionale e l’Europa, un ambito in cui mi sembra che si navighi a vista, senza una linea chiara e una visione d’avvenire.

A proposito di riflessioni… Lei sulla questione palestinese è stato sempre molto chiaro. Cosa impedisce a questa sua «verità irriverente» di essere fatta propria dagli Stati?
La tragedia della Palestina è sempre stata per me l’esempio apodittico dell’ingiustizia fatta subire a un popolo sia dal mondo occidentale sia da quello arabo. Una vicenda che comincia nel 1916 quando Francia e Regno Unito si dividono il Medio Oriente senza evidentemente chiedere il parere degli abitanti. Poi la promessa degli Inglesi di prevedere un territorio per gli ebrei, su di un territorio occupato da altri da cui furono cacciati nel 1948 con atti che oggi si definirebbero terroristici e di crimini contro l’umanità. E infine, e soprattutto, l’immane tragedia della Shoah, una delle peggiori di tutta la storia dell’umanità (ad opera di cristiani!). Credo che la nostra visione del problema sia offuscata dal tremendo rimorso per quanto capitato durante la guerra nei confronti degli ebrei, vittime dei nazisti, ma anche dall’indifferenza e dal silenzio di molti (Hannah Arendt parla dell’Eloquenza del diavolo, denunciando anche il silenzio di organizzazioni ebraiche americane), dal rifiuto di Paesi che hanno rifiutato di accoglierli. Uomini di Hamas hanno commesso atti ignobili e vanno considerati come degli assassini. Ma oggi il nemico principale di Israele è il suo Primo ministro, Netanyahu: da anni non solo tollera Hamas, ma come da lui stesso dichiarato (e mi stupisco che i nostri media siano silenti su questo aspetto) ha autorizzato il suo finanziamento da parte del Qatar. Suo scopo era di dividere i Palestinesi, impedire la soluzione dei due Stati e lasciar progredire l’insediamento dei coloni nei territori illegalmente occupati. Netanyahu si aggrappa al governo per sfuggire a un processo per corruzione. Intanto l’apprendista stregone ha creato due mostri: Hamas e il proprio governo, razzista e disumano. E tutti stanno a guardare come decine di risoluzioni dell’ONU sono sistematicamente violate, quasi che certi bambini morti valgano meno di altri.

Nel suo libro parla di «visione realistica della politica internazionale», che cosa intende?
Vede, io temo che non ci si renda conto che stiamo vivendo un formidabile cambiamento epocale: un Occidente che si indebolisce, con democrazie in crisi e un Sud globale che si sta sempre più organizzando con una crescente ostilità nei confronti del nostro sistema e dei nostri valori (che difendiamo malissimo). La Svizzera potrebbe giocare un ruolo significativo in questo particolare momento storico. Potrebbe …

A proposito di Svizzera: sa che leggendo il suo libro ho scoperto che i gerani sono originari dell’Africa? Lei come l’ha saputo?
Facendo giardinaggio. Così mi è venuto in mente che i gerani e la neutralità hanno qualcosa in comune: entrambi provengono dall’estero (i gerani dall’Africa, la neutralità dalle grandi potenze del Congresso di Vienna perché faceva loro comodo, come ha poi fatto comodo anche a noi). Entrambi sono diventati un simbolo forte del nostro Paese: tutti e due hanno bisogno di cure ed evolvono attraverso il tempo e le circostanze non sempre con coerenza.

Ultima domanda irriverente: perché la suoneria del suo telefono propone parole e musica del Chant des Partisans?
La storia della Resistenza mi ha sempre affascinato. Mi chiedo spesso, che cosa avrei fatto in quelle circostanze, zitto come la grande maggioranza o ardito come quei coraggiosi che non hanno esitato a rischiare la loro vita per un ideale di libertà? Le parole della canzone sono di due famosi scrittori e ogni volta che suona il mio telefono è un’iniezione di fiducia e un incitamento al coraggio.

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