Gian Mario Villalta con Dove sono gli anni (Garzanti, p.p.200), tocca un punto molto importante della sua produzione poetica, già segnalatasi con opere di rilievo come Vanità della mente (2011) e Telepatia (2016). Ebbene già nel titolo si trovano tracce di una linea di pensiero ben individuabile e dalle risonanze fortemente esistenziali, che il poeta porterà sempre avanti, talvolta sotto traccia, in tutta la raccolta. Ecco questa poesia tenta a strappi e sobbalzi, tra le tante storie, di ritrovare quel tempo perduto di ogni vita, attraverso una continua interrogazione che sembra venire dal sé, da quel ragazzo con la maglia a righe, che esordisce già nelle prime pagine e poi permeare, le tante relazioni che affiorano e ci parlano in questa raccolta. E la risposta dei tanti compagni di viaggio, sembra inverarsi in una visione ma come dall’aria riesumata e cosa si riesuma, potremmo chiederci, se non una spoglia?
<<…/E poi sono andati via i passi/che hanno lasciato lì,/le bocche di quando la parola ranghinatore/stingeva un sapore di polvere e grasso./Ma tu li vedi, tu credi tornino se dici <<e poi>>?//Sono andati come vanno i tuoi morti …/>>.
Quasi che tutti gli attimi, sia che richiamino il sé stesso di un tempo, o che abbiano un taglio più sociale, civile, diciamo più appartenenti ai riti della collettività, sono in un limbo di pensabilità certo ma di definitiva imprendibilità, tanto che pur continuamente rievocati, sono perduti, perché mai afferrabili in un significato di senso definitivo. E ciò che interessa altresì è che questa inafferrabilità, quasi prenda forma in uno scritto costituito da parti in lingua dialettale, che torna e chiude, come sesto, ogni gruppo di cinque componimenti proposti in continuità nelle quindici stazioni della prima parte del libro: <<Da sempre domandàrme,/questionàr chi l’è mi, quando ti/te sé ti, te sé ti, te se ti.// Stupido// Te se ti serà qua/co’ tute le scarpe vecie, le scarpe nove/ ancora da mèterle, scarpe de tuta ’na vita/…/…te imàginitu, in te ’na stansa/serà co’ tutte le scarpe?/Tutte le scarpe di una vita.//Altre domande?>>. Le identità girano quindi nel libro come mai identificabili, sempre precarie poiché le stagioni tramutano la nostra posizione nel mondo; il tempo però ha bisogno dell’uomo per consistere e l’uomo del tempo. Talvolta Villalta sfiora la metamorfosi identitaria, nel gioco di memoria di un’ombra, come quella per esempio di Mario Benedetti, deceduto nel 2020, figura per il poeta tra le più care ed importanti: <<…//… Sono io, oggi, qui, le tue parole, l’occhio/scava, trova l’ombra, oggi, qui anche mia>>.
Torna in mente un bellissimo titolo di Mario Luzi Su fondamenti invisibili, ecco il libro riposa su queste fondamenta; crediamo di possederle ed addobbarle, le identità, oggi più che mai digitalmente ma continuano a sfuggirci, perché imprendibile il loro senso; l’uomo va a ritroso alla cerca delle proprie relazioni, che gli sono però continuamente in fuga e quindi si perde, perdendo coscienza di sé: <<…/…Dove sono non so, tutti quegli anni,/adesso questo stupore, immaginare/che avrei potuto, avrei potuto, e quello che è stato/ è di più…>> . Ed il vacillare della nostra posizione, si estende anche agli altri esseri viventi. Vi è tutto uno spazio monologante, con sfumature dialogiche, per esempio tra uomo ed uccello, uomo ed orso sul perché di ogni origine, che risulta essere quasi una sorta di perorazione amorosa nei confronti della vita e dei suoi attimi in sé, senza un perché, un per come: <<Ibisco, non sei stato abbandonato/non insistere, non hai mai saputo/ da dove vieni, e quelle foglie, quei fiori/ nella bella stagione erano un fatto/che non hai compreso, e non mai./…>>. E questa domanda ampia e senza sconti, che Villalta pone alla cosa naturale, si avvicina a quella grande tradizione leopardiana, di fare della stessa l’interlocutrice fondamentale della propria speculazione, anche se appunto oramai, ed è qui l’intuizione del poeta, oramai è immessa: << nel protocollo natura, non più lingua, ma legge/ di leggi, algoritmo del consumo-…/…>> non più quindi sentita come lingua da interrogare. E nell’ultima poesia, così risonante anche con quelle del maestro Andrea Zanzotto, la “specie dominante” così detta, sembra affogare nelle conflittualità perduranti, nei miti del consumo digitalizzato, nella sua ostentata superpotenza.
Ecco, in Dove sono gli anni, sciamano come fantasmi, le lingue profonde delle comunità, con i loro dialetti oramai all’ultimo stadio di resistenza ma anche tante figure che s’inabissano in una memoria sempre tremante e frammentata; più il lettore sfoglia le sue storie, più sparisce dentro quella grande domanda, quasi presa d’atto, che in essa è come iscritta: chi siamo?