Quando Russel Kirsch, ingegnere del National Bureau of Standards degli Stati Uniti, realizzò la prima fotografia digitale scelse come immagine un ricordo a lui caro, il volto di suo figlio, era il 1957 e quella foto in bianco e nero, 176 pixel per lato, aprì la strada a tecnologie che avrebbero pervaso le nostre vite.
Oggi, la facilità di fermare ogni istante della vita in un’immagine digitale grazie ai nostri smartphone, la disponibilità che abbiamo di enormi spazi di archiviazione, e le applicazioni basate su algoritmi di intelligenza artificiale per la ricerca e la classificazione dei nostri ricordi digitali, stanno cambiando il concetto stesso di memoria. Al tempo stesso, se penso alla fine che hanno fatto i video di quando ero bambino, conservati in nastri VHS, in parte rovinati, in parte digitalizzati e archiviati su CD ROM, supporti digitali ormai obsoleti, mi chiedo se e come potrò conservare la mole di documenti e memorie digitali che sto generando.
Di fronte al continuo esaurirsi dello spazio di archiviazione dei miei dispositivi, ho cominciato a conservare le foto e i video a cui tengo di più in spazi cloud, magari a pagamento. Sul cloud finiscono anche tutti quei contenuti che generiamo per i social, memorizzati nei server di compagnie come Meta e Google, ricordi e immagini che spesso dimentichiamo finché qualche algoritmo non decide di riproporceli sulla nostra bacheca digitale. Ma se un faldone d’archivio o una pergamena possono durare centinaia di anni, un testo o un’immagine su supporto digitale rischiano di avere una vita molto più breve.
Sono temi e preoccupazioni al centro del lavoro di uno dei ricercatori svizzeri più coinvolti in progetti di digitalizzazione, conservazione e valorizzazione della memoria collettiva, Frédéric Kaplan, direttore del College of Humanities del Politecnico federale di Losanna (EPFL), titolare della cattedra di Digital Humanities e presidente della Time Machine Organization. «L’idea che una memoria digitale solida come un hard disk sia eterna è un’illusione – dice Kaplan – c’è il rischio della corruzione dei dati, dell’obsolescenza tecnologica, senza contare la dipendenza dall’energia elettrica, tutti elementi che rendono simili supporti molto fragili; d’altra parte, la tecnologia digitale permette di conservare archivi enormi in poco spazio, di duplicarli, di trasportarli con semplicità, di rendere più efficienti le ricerche, e tutto questo fa sì che la digitalizzazione sia una buona strategia se vogliamo conservare i nostri dati, le nostre memorie, per tanti anni».
Nonostante questa fragilità del digitale, il rischio che anche un archivio su carta diventi inaccessibile o addirittura muoia è alto, mentre, dice Kaplan, «grazie alla digitalizzazione, quello stesso archivio può vivere, creando connessioni, nuove scoperte, diventando facilmente accessibile, trasformando così dati e informazioni in memoria». Un progetto che va in questa direzione e che oggi coinvolge 600 istituzioni diverse è quello diretto proprio da Frédéric Kaplan, Time Machine (www.timemachine.eu), un’avventura iniziata dieci anni fa, volta alla digitalizzazione e valorizzazione della memoria delle città: «Le città cambiano nel tempo e il nostro progetto – spiega Kaplan – è come uno slider su una mappa che mostra com’è cambiata una città rispetto a 100 o 200 anni fa, o come sarà nel futuro. Una delle sfide tecnologiche maggiori è quella di riuscire a dare l’accesso a simili informazioni a tutti, a chi ha il compito di gestire la città ma anche a chi deve prendere decisioni e, per esempio, prima di acquistare casa, vuol sapere come evolverà il quartiere dove andrà ad abitare».
Ci sono archivi enormi come quello di Venezia, 80 chilometri lineari di documenti, che permettono di ricostruire le trasformazioni di ogni edificio della città e dei suoi abitanti in un arco di tempo millenario, e proprio per questo Venezia è stata la prima città del progetto Time Machine: «Dopo Venezia, il progetto si è sviluppato su scala europea, creando decine di Local machine, cioè accessi unici per le ricerche digitali sulla memoria di una città». «Oggi – continua Kaplan – lavoriamo anche su città non europee, come Gerusalemme, i cui archivi sono ovunque, da Istanbul agli Stati Uniti. Per ricostruire la storia di simili città occorre lavorare su scala globale, questo vale per una città-mondo come Gerusalemme, ma anche per un piccolo villaggio; nei documenti di un catasto di paese possiamo trovare una quantità di connessioni e informazioni con tante altre parti del mondo». Per questo, l’invito è quello di unirsi e contribuire a simili e ambiziosi progetti di digitalizzazione come Time Machine, anche nel caso di piccole comunità locali.
Tuttavia, la digitalizzazione di fonti e documenti deve essere fatta con criteri e tecnologie che ne garantiscano la durata: «Oggi, stanno emergendo nuove e interessanti modalità di conservazione: è possibile, addirittura, registrare i dati su DNA come abbiamo sperimentato per la modellizzazione di Piazza San Marco a Venezia». Ma quali sono, invece, le soluzioni migliori per conservare i ricordi dei nostri personali archivi? «L’unico modo è trasformare quei ricordi in qualcosa di vivente, fare copie digitali da tenere in luoghi diversi, aggiornare in modo regolare i formati dei nostri file, e non dimenticarli in qualche hard disk chiuso in un cassetto. Ma è anche utile continuare a stampare e condividere foto con familiari e amici: oltre a essere un modo per creare e coltivare legami, è una strategia per fare buona conservazione».
Poi ci sono tutti quei ricordi che finiscono sui social, conservati nelle memorie dei server di grandi aziende. «È preoccupante non avere il pieno controllo dei ricordi che condividiamo sui social; che cosa accade, per esempio – si chiede Kaplan – quando una persona muore? Cosa resta di tutte le e-mail che sono nel cloud? Chi può accedere a queste informazioni?». Sono domande che dobbiamo porci. Consapevole del potenziale valore dei dati lasciati da chi diventa «inattivo», Apple, per esempio, permette di designare una persona che può accedere a un account dopo la morte del proprietario.
«Oggi – conclude Kaplan – quando parliamo di “memoria” non dobbiamo pensare alle pietre romane o alle scritte su pergamena, ma al Teatro. La memoria è come un’opera teatrale, se non si rappresenta, se non si mostra, se non si reinventa, se non è resa viva piano piano scompare, e qui sta anche il suo paradosso». Quello della memoria è un concetto che si sta trasformando con la stessa tecnologia: «Vent’anni fa un documento era qualcosa di fisso, tangibile poi siamo passati alla memoria sul web e oggi con l’esplosione degli algoritmi d’intelligenza artificiale arriveremo a una memoria integrata sulla forma di un linguaggio, come chatGPT. Tutto ciò suscita timori: non sappiamo in cosa evolveranno questi algoritmi, sono sistemi manipolabili e complicati da gestire, ma permetteranno di creare modelli, fare sintesi delle nostre memorie, trovare connessioni fra documenti in archivi distanti, ricostruire rappresentazioni digitali di persone, luoghi e città e qui sta il futuro della memoria. Siamo solo all’inizio».