La difficile esistenza nel mondo di fuori

by Claudia

Romanzo  ◆  In Non esisto Alberto Schiavone racconta la storia di Maria, una donna che si ricostruisce una vita fuori dal carcere

Si può cominciare col dire ciò che non è il libro con cui Alberto Schiavone inaugura (e già questa è una buona notizia) la collana Place d’Italie dell’editore Clichy. Non è un romanzo sul carcere (ce ne sono già in abbondanza, oltre ai film e alle serie TV); non è un saggio di sociologia sulle difficoltà o le possibilità di reinserimento dopo l’esperienza detentiva. È invece un testo nobilmente letterario, con molti pregi e qualche difetto, che inizia nel momento in cui Maria si lascia alle spalle il cancello del penitenziario, senza nessuno che la aspetti, con «lo stesso cielo delle ore d’aria, ma che adesso sembra più grande».

Schiavone costruisce un personaggio riuscito, lacerandone l’identità attraverso l’alternanza tra prima e terza (talvolta anche seconda) persona

Schiavone ha anzitutto la mano felice nella trattazione del tempo. Il presente di Maria è infatti indagato attraverso la scelta di frammenti emblematici, incisi in una geografia urbana misurabile attraverso le diverse linee degli autobus: quelli che servono il centro sono a una cifra, quelli a tre cifre portano nelle terre di nessuno fatte di palazzoni, anonimi interstizi, hotel da quaranta euro a notte. Maria, respinta dalla famiglia (la madre non si gira nemmeno quando la sente entrare; il padre le dà i soldi con cui aveva previsto di sistemare il tetto, una bicicletta scassata e le dice di non farsi più vedere), troverà riparo prima dietro il gabbiotto di un benzinaio, poi in una scuola abbandonata, poi in case sempre più dignitose (o meno indecorose) grazie ai lavori che le permetteranno di non fare più la fila di fronte alle mense dei poveri. Ma le relazioni appaiono difficilissime.

Una sera Maria si siede a un cinema all’aperto, gratuito. Nessuno le dice di andarsene o di spostarsi, ma alla fine è l’unica a non avere qualcuno con cui discutere del film. L’amore arriva dal luogo più inaspettato, letteralmente da uno dei cassonetti dell’immondizia che Maria svuota come netturbina. Ma non è destinato a durare, non è sempre vero che dal letame nascono i fiori. Insomma, difficile esistere nel mondo di fuori («Mi manca il carcere»), tanto che Maria, prima del capitolo finale, sarà grottescamente costretta a fuggire dalla propria libertà, calandosi dalla finestra di casa con le lenzuola legate al termosifone.

Schiavone costruisce un personaggio riuscito, lacerandone l’identità attraverso l’alternanza tra prima e terza (talvolta anche seconda) persona e grazie alla scelta di dettagli spesso efficacemente fissati dalla paratassi: «Ha pedalato per tre giorni pieni, ha dormito nei campi. Ha pianto sei volte e mangiato albicocche. Ha comprato uno spazzolino da denti e del dentifricio, si è lavata dentro il bagno di un bar anche i capelli, ma con il sapone che ha trovato lì e che usciva dal dosatore». Peccato che qua e là questa incisività venga messa in ombra dalla ricerca della frase ad effetto (Maria cade con la bicicletta in un fossato, «i piedi ancora a mollo dentro la sfortuna») o da similitudini e metafore poco felici («Automobili ogni trenta secondi scappano, o tornano, come rimpianti»; «Un po’ sorride un po’ si dice che quello sembra matto, e le due cose fanno l’amore»).

Il passato di Maria, senza che vengano rivelati il motivo della condanna o la durata della detenzione, è invece illuminato da squarci di vita carceraria e famigliare: lei bambina che se la fa addosso dopo che il padre la porta da un contadino che scuoia sotto i suoi occhi il coniglio che le ha fatto scegliere; lei a dieci anni che entra in cucina e in un angolo vede la madre che sta per «mangiare un barattolo di pastiglie bianche»; lei che in cella ha il primo vero dialogo con qualcuno, Veronica, che ha sgozzato il proprietario di un ristorante con una scimitarra. Soprattutto, dal passato tornano un uomo con un Suv nero («Nessuno si è dimenticato di te. Non io, almeno») e la vecchia e ormai scomoda compagna di scorribande Alexandra («Ho bisogno di fermarmi qualche giorno in un posto tranquillo»).

Piccole storie che Schiavone, con intento metaletterario, alterna a quelle (forse altrettanto piccole, sicuramente più famose) di persone realmente esistite e in qualche modo legate alla vicenda di Maria: storie di prigionia (Giovanna d’Arco, Leonarda Cianciulli, Natascha Kampusch), storie di chi sulla prigionia ha riflettuto (Henri Laborit) o di chi attraverso le proprie opere ha provato a immaginare il futuro (Albert Robida). Quello di Maria appare affidato alla fragile utopia di Babele, la costruzione in carta di un albergo e di un ristorante che serve i piatti di tutto il mondo; e forse a un progetto ancora più ambizioso: «Quando moriranno i miei genitori voglio costruire con il cartone la casa in cui sono nata e cresciuta e metterci dentro loro e mia sorella e perfino me stessa». Un sogno destinato a restare tale: leggendo l’apparentemente aperto ultimo capitolo, il più onirico e visionario, non bisognerà scordarsi che Maria non sa nuotare.

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