Ritorno al passato e ai Chicago Bulls

Fra la seconda e la terza liceo, trascorsi un lungo periodo negli Stati Uniti, durante il quale frequentai l’ultimo anno di high school, prima di tornare in Ticino e concludere il liceo. Quel soggiorno fu molto importante sotto diversi aspetti. Avevo diciassette anni: un’età in cui certe esperienze possono rivelarsi estremamente formative. Credo che il carattere formativo di quella esperienza avesse molto a che vedere con il fatto che le mie conoscenze degli Stati Uniti, prima di arrivarci, erano decisamente lacunose, per lo più indirette, influenzate dalla televisione, e dalla mia passione per la pallacanestro. Come dire: quando arrivi in un luogo che si rivela radicalmente diverso dalle tue aspettative, devi rimettere in discussione la tua visione della realtà. E questo significa anche, inevitabilmente, rimettere in gioco te stesso. Viaggiare e vivere lontano implica sempre una ridefinizione del familiare. Immergersi in un’altra cultura significa arricchire, e quindi trasformare, lo sguardo che si porta alla propria cultura di appartenenza.

Ma torniamo, per un attimo, al punto di partenza. Prima di partire, l’organizzazione a cui mi ero rivolto aveva chiesto, a me e agli altri liceali interessati allo scambio, di scrivere una sorta di lettera di presentazione, in modo da fornire qualche elemento che potesse aiutare a decidere in quale zona o località avremmo trascorso il nostro anno di scambio. Non so se succede ancora così con i programmi di scambio delle scuole medie superiori, ma il fatto è che non avevamo nessuna idea di dove saremmo finiti: se in un posto sperduto in mezzo al nulla oppure, magari, in una città moderna e popolosa. Ad ogni modo, ricordo che in quello scritto avevo insistito parecchio sulla mia passione per il basket. Forse fu proprio ciò a portarmi nel Midwest, e più precisamente in Indiana.

Con le sue interminabili distese di campi di grano, l’Indiana non è certo la meta più ambita per chi viaggia negli Stati Uniti, a meno di non essere un fedelissimo fan della serie Stranger Things, ambientata proprio nell’Indiana degli anni Ottanta. Quindi, forse, la pallacanestro c’entrava qualcosa. In Indiana, per dire, nei licei e nelle università la pallacanestro è quasi una religione, e non mancano personaggi che vestono i panni del guru: come Bobby Knight, figura leggendaria che per tanti anni allenò la squadra dell’Indiana University per la quale giocò, prima di entrate nell’NBA, anche un certo Larry Bird.

Dunque, come dicevo, il mio anno negli Stati Uniti l’avrei trascorso in Indiana. Per giungere a destinazione – un paesino piuttosto sperduto in mezzo ai citati campi di grano –, non volai a Indianapolis, ma a Chicago, dove la mia famiglia ospitante mi avrebbe accompagnato, in macchina, fino in Indiana. Chicago è nell’Illinois, certo, ma a conti fatti era molto più vicina al paesino dove avrei vissuto di quanto non lo fosse Indianapolis. Era la prima volta che mettevo piede negli Stati Uniti, perciò, ancora oggi, Chicago riveste un’importanza particolare per me: simbolicamente è lì che ha avuto avvio la mia avventura americana. A dire il vero, poi, nei mesi seguenti non è che la vidi più di tanto: una volta per un concerto degli Emerson, Lake & Palmer (ai tempi del liceo mi appassionavo di rock progressivo), un’altra volta per una visita alla Sears Tower (l’edificio più alto di Chicago), e poi andai anche a vedere una partita di NBA fra i Chicago Bulls e gli Houston Rockets (sì, c’era anche Micheal Jordan). Ma, tutto sommato, all’infuori di queste visite mirate, non è che avessi avuto modo di vedere granché della città, per cui non mi sembrava di poter dire di averla visitata veramente.

Di recente, però, mi è capitato di tornarci per un breve viaggio, negli Stati Uniti. In assenza di una ragione che rendesse il viaggio necessario, mi sono trovato un pretesto. I Tool – la rock band californiana capace di rubare il primo posto nelle classifiche di Billboard a Taylor Swift in occasione dell’uscita del loro ultimo album Fear Inoculum nel 2019 – stavano girando gli Stati Uniti: consultando il calendario del tour, mi sono reso conto che durante le vacanze scolastiche autunnali, all’inizio di novembre, avevano in programma alcune date. Una di queste, a Milwaukee, cadeva a metà settimana, dettaglio particolarmente congeniale a giustificare un breve ma intenso ritorno negli States.

Facendo mente locale, mi sono ricordato che Milwaukee è piuttosto vicina a Chicago (più o meno quanto lo sono Berna e Ginevra), e Chicago offre un numero maggiore di voli dalla Svizzera e, quasi certamente, prezzi più interessanti. Sicché ho preso due piccioni con una fava: avrei visitato Chicago per alcuni giorni, prima di recarmi a Milwaukee (il viaggio in treno dura circa un’ora e venti) per il concerto dei Tool. Avrei quindi trascorso un paio di giorni a Milwaukee, per poi tornare a Chicago e riprendere l’aereo per Zurigo.

Nell’insieme, il viaggio è stato veramente piacevole, e mi ha dato modo di visitare il centro di Chicago. Fra gli edifici della skyline nella cosiddetta zona downtown, ho passeggiato per il Millennium Park, che ospita un anfiteatro realizzato dall’architetto Frank Gehry, e The Bean, un’intrigante scultura pubblica dell’artista britannico di origini indiane Anish Kapoor. Poco distante da lì, ho esplorato l’Art Institute of Chicago e il Field Museum, istituzioni museali fra le più importanti a livello mondiale. Fra un museo e l’altro, ho trovato anche il modo di rinsaldare i legami con il passato, incontrando Ken e John, due compagni di scuola che conobbi ai tempi del mio anno di scambio.

Anche Milwaukee, a dire il vero, non scherza in fatto di arte: il suo Milwaukee Art Museum, situato sulle rive del lago Michigan, è fra i più grandi musei degli Stati Uniti. Già dall’esterno, colpisce l’impressionante edificio che lo ospita: una via di mezzo fra uno scafo di una nave e un’astronave spaziale, frutto dell’architetto spagnolo Santiago Calatrava. Girando per le vie di Milwaukee, mi imbatto anche in un grande murales che raffigura, di spalle, Giannīs Antetokounmpo, meglio noto come The Greek Freak, cestista greco dei Milwaukee Bucks, squadra vincitrice del campionato NBA nel 2021. Quanto al concerto, che dire, i Tool non deludono le attese: talento, creatività, spirito visionario, attenzione al dettaglio, concorrono a rendere questa band assolutamente unica.

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