Non è un gioco da ragazzi

by Claudia

Salute - Giocare potrebbe diventare un azzardo problematico e patologico. Ma se ne può uscire

«Mi è difficile individuare quando mi sono avvicinata al gioco d’azzardo. In forma non patologica, è sempre stato presente nella mia vita: il sabato, per non lasciarmi sola perché mia mamma lavorava, mio papà mi portava con sé a casa dei suoi amici dove trascorrevano lunghe ore a giocare a poker. Un hobby da fine settimana e nulla più. Quando papà vinceva, una parte dei soldi finiva a me, il che non mi pareva assolutamente deprecabile». È l’inizio del racconto di Francesca, 34 anni, che al termine del suo programma terapeutico per un problema di gioco d’azzardo patologico ha testimoniato la propria esperienza nel libro del dottor Cesare Guerreschi Testimonianze, quando la costanza della ragione vince sul demone.

Quella «parte dei soldi che finiva a me», l’effetto inebriante della vincita (vedremo, solo apparente) è quanto di più insidioso sta nel gioco d’azzardo: una delle prime «trappole» di cui parliamo con la psicologa e psicoterapeuta specializzata nel disturbo da gioco d’azzardo Anna Maria Sani. «Il “soldo facile” è uno dei valori a cui si tende a voler credere. La realtà è che, a lungo, il giocatore è sempre perdente e il banco vince. È matematico: i giochi d’azzardo sono pensati per far perdere, a lungo termine, ogni giocatore; dunque, tessono una serie di trappole».

La psicoterapeuta Sani prende ad esempio un semplice biglietto «Gratta e vinci» e il suo subdolo meccanismo: «Ti faccio vincere il costo del Gratta e vinci, ma dobbiamo mettere tra virgolette quel “vincere”, perché solo il cervello lo interpreta come vincita, innescando l’altissima probabilità che tu continui a comprare un altro biglietto, e un altro ancora». Anche se non sempre si vince, il meccanismo si è innescato ed è pericolosissimo: «Pensiamo solo che la nuova legge federale sui giochi in denaro è entrata in vigore nel 2017, sostituendo quella del 1923 per la quale anche i minorenni potevano comperare questo tipo di biglietti; ad esempio, a Bellinzona li compravano addirittura già i bambini delle elementari, giocando con la loro paghetta».

Il gioco d’azzardo non si limita a questo, ma abbraccia un mondo intero: dalle slot machine («ideate per essere attrattive e “ipnotizzare” il giocatore che non si rende neppure conto di quanto tempo vi resta incollato»), a tutti gli altri giochi, ivi compresi i più innovativi e facilmente raggiungibili sul web per i quali la specialista lancia un altro monito: «La pandemia ha potenziato questa dipendenza e i giocatori patologici sono raddoppiati, a tal punto che i Cantoni hanno lanciato una Campagna di prevenzione al gioco d’azzardo. Oggi questo problema si è accentuato, come del resto tanti altri: Google, TikTok e i social usano gli stessi meccanismi delle slot machine, cosicché si è sempre più esposti e non si riesce più a pensare, sempre più distolti dalla vita e da ciò che ci succede nella realtà».

Tornando alla voce di Francesca: «Il mio primo approccio al Casinò avvenne cinque anni dopo il matrimonio e fu l’inizio di un’esperienza drammatica, ai limiti della sopportabilità umana. Provai con le slot machine, mi incollai davanti a una macchinetta e non mi mossi più. Nei giorni seguenti, il mio pensiero tornava spesso alle slot machine». Così cade in una vera e propria dipendenza, che non è uno scherzo e non è affatto un gioco, spiega la psicologa: «Nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) il Disturbo da gioco d’azzardo è stato definito come un “comportamento di gioco problematico persistente e ricorrente, caratterizzato da un’incapacità di controllare il gioco d’azzardo, e che porta a significative conseguenze psicosociali per l’individuo».

Rispetto alle edizioni passate, è stato classificato come dipendenza e non come, nel passato, tra i disturbi del controllo degli impulsi. Non è un vizio (comportamento giudicato globalmente in modo negativo), bensì: «È una malattia grave, cronica e recidivante». Le statistiche ne confermano un aumento, anche fra i giovani: «Il disturbo da gioco d’azzardo è spesso considerato un problema che affligge solo gli adulti, mentre l’incremento maggiore oggi è a carico dei minorenni e dei giovani adulti fra 18 e 24 anni. Poi, con Internet è facile aggirare le regole anche nel gioco d’azzardo».

Sono più maschi che femmine, che stanno però aumentando: «Iniziano più tardi rispetto agli uomini, ma cadono più velocemente nella dipendenza. Però sanno chiedere aiuto più facilmente: l’uomo si vergogna, e dietro a chi lo fa c’è sempre una donna che, per aiutarlo a uscirne, lo supporta. La donna è per lo più sola: il compagno lo vive come un problema, viene criticata e viene lasciata a sé stessa. E una donna va a giocare per dimenticare, è una giocatrice “di fuga” dalle emozioni negative, dalla solitudine, dai problemi (ndr: così come è successo a Francesca, che ha chiesto aiuto ed è riuscita a uscirne grazie a questo percorso). L’uomo ci casca per lo più per sentire emozioni forti».

Caratteristico è il ventaglio di tratti che accomuna queste persone: «Un pensiero ossessivo del gioco, che diviene una costante nella vita quotidiana fino a interferire con il lavoro, gli interessi abituali, le relazioni famigliari e sociali; la tendenza a raccontare e ricordare bugie (per sostenere le perdite e il bisogno di denaro), scommesse e vincite precedenti; il bisogno di giocare sempre di più per ottenere lo stesso livello di eccitazione. C’è chi, col tempo, riprende il controllo da solo, pena una grossa crisi di astinenza (anche fisica), con l’ombra di una ricaduta visto il carattere recidivante del disturbo. Questi criteri (astinenza, tolleranza, tentativi infruttuosi di fermarsi, rinuncia ad altre attività, persistenza del comportamento malgrado i problemi) sono identici a quelli del disturbo da uso di sostanze».

Bisogna saper chiedere aiuto: «Solo il tre per cento lo fa, e la maggior parte di questi ne esce». Ci si deve affidare a esperti sul territorio, perché il ventaglio dei giocatori è ampio e nel percorso bisogna che emerga una grande esperienza. Almeno sette sono le persone che soffrono accanto a un giocatore patologico, con conseguenze negative per tutti: «Chi vi sta accanto non dovrebbe continuare a recriminare. Non serve dare la colpa, perché bisogna capire che è una malattia e la persona non è cattiva di per sé, ma va sostenuta nel percorso, creando fiducia nel fatto che se ne può uscire».

D’altra parte, bisogna essere decisi: «Non concedergli più prestiti e non pagate più i suoi debiti, perché il giocatore deve fare fatica!». La psicologa sottolinea: «Attraversare ogni esperienza è un duro lavoro; le cose semplici sono stupide e nella vita non ti danno spessore. Bisogna sudare per crescere. Per aiutare un giocatore patologico in difficoltà, bisogna cercare di gestire per un certo periodo la sua situazione finanziaria non lasciandogli disponibilità, per via dell’impulso di giocare troppo grande. E non bisogna temere di affrontare il tema: se diventa aggressivo, è perché stiamo agendo in modo corretto, e parlare del proprio comportamento del gioco dovrà diventare come parlare di ogni altra cosa, in una comunicazione che non vira al giudizio personale. Ricordando che “la malattia è sbagliata, non tu”».

Francesca ne è uscita: «Il gioco mi ha riempito tanti momenti vuoti, mi ha tolto responsabilità che non volevo prendermi, mi ha eccitata. Ma nulla più. Mi ha tolto cinque anni di vita e mi stava togliendo anche la vita. Oggi il gioco lo detesto profondamente».

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