Roma: stessa città, culti diversi

Mille, forse poche di più. Questo sembra essere il numero delle chiese di Roma anche se nessuno, nemmeno in Vaticano, sembra conoscerlo con precisione. Una schiera imponente, composta da grandi basiliche e cappelle fuori mano, facciate spettacolari e navate nascoste all’interno di palazzi. Non aveva torto l’ironico poeta romano per eccellenza, Giuseppe Gioacchino Belli, quando scriveva: «Nun ze nega però ch’in quant’a cchiese / a Roma uno ppiú bbazzica e ppiú ttrotta / e ppiú bbuffe ne trova a sto paese».

Nella Città Eterna, sede del papato e centro della cristianità, ogni nazione del passato volle un suo luogo di culto e buona parte di questi templi – cristiani, ma non cattolici – ancora esistono, con le loro funzioni officiate in spagnolo, francese, tedesco, portoghese o croato che radunano ogni domenica piccole comunità di romani d’adozione, felici di incontrare i loro connazionali.

A proposito dei gruppi di «stranieri» che popolano la città più religiosa e cinica del mondo, tra le vie e le piazze di Roma non mancano le chiese di confessioni differenti da quella cattolica. Basta superare la fila di turisti annoiati in attesa di inserire una mano tremante nella celebre Bocca della Verità per entrare nella navata di Santa Maria in Cosmedin – dove le funzioni sono officiate in arabo – per scoprire che l’antica basilica è dedicata al culto greco melchita, patrimonio di una delle più antiche chiese orientali che dipende dal patriarca di Antiochia.

Atmosfera ben diversa quella di San Paolo entro le mura, dove gli incontri dei parrocchiani si svolgono spesso all’ora del tè: la chiesa infatti è stata il primo tempio non cattolico a nascere a Roma subito dopo la fine del potere temporale del papato. E i suoi fedeli (protestanti episcopali perlopiù inglesi) ascoltano i sermoni dei loro diaconi all’ombra dei mosaici in stile liberty che raffigurano i combattenti della fede, tra i quali è facile riconoscere i volti di Giuseppe Garibaldi e di Abraham Lincoln.

Altro quartiere, altra chiesa, confessione differente: a piazza Cavour, confine del quartiere Prati all’ombra della mole imponente e un po’ sgraziata del Palazzo di Giustizia, la chiesa valdese venne costruita agli inizi del Novecento. Il luogo è piacevolmente tranquillo e silenzioso, anche per la presenza di una bella libreria dedicata soprattutto alla religione e degli uffici che sovrintendono alle molteplici attività della comunità valdese. Qui un’occhiata all’interno del tempio permette di ammirare una collezione di vetrate liberty, stile non molto frequente nella capitale. Per realizzare le immagini evocative di episodi biblici e di storia sacra, i valdesi chiamarono Paolo Paschetto, multiforme artista e disegnatore che ha realizzato anche la prima bozza dello stemma della Repubblica Italiana.

Sulla piazzetta dedicata alla Madonna dei Monti sul far della sera si accendono le luci e si scatenano i rumori della movida serale che, nei mesi del post pandemia, sembra aver raggiunto livelli di decibel veramente esagerati. Ci sono delle ore, però, in cui invece delle musichette da balera, la piazza è attraversata dalle voci acute del coro femminile della piccola chiesa ucraina dedicata ai centurioni romani Sergio e Bacco, martirizzati per volere di Diocleziano. La comunità ucraina di Roma, i cui numeri si sono ampliati enormemente nel corso dell’ultimo anno, professa in larga parte la sua religione che, dal Seicento, è entrata in comunione con la Chiesa cattolica. Il rito delle celebrazioni rimane però molto simile a quello ortodosso, l’altare è separato dalla navata da una iconostasi dipinta e nei grandi bracieri bruciano le sottili candele di cera scura che sono caratteristiche delle chiese orientali. E la polifonia del «coro delle badanti» – come lo chiamano con affetto i cinici abitanti della zona – risuona forte e chiara a due passi dal Colosseo.

Completamente ortodosse sono invece la liturgia e la decorazione della chiesetta di San Teodoro, che sorge in un piccolo slargo al di sotto della rupe del Palatino sorretta dalle grandi muraglie dei palazzi degli imperatori del passato. Il tempio circolare (che i romani veraci chiamano affettuosamente «San Toto») nacque nel VII secolo e, già che i conteggi della vicina Annona erano affidati alle capacità contabili dei monaci bizantini, fu a lungo frequentata dai greci. Per gli strani casi della storia, la chiesetta, divenuta cattolica, sarebbe tornata al culto delle origini per volere del Papa nel 2004 per essere consacrata nuovamente in pompa magna dal patriarca Bartolomeo I di Costantinopoli. Nelle mattinate domenicali, un folto gruppo di greci trapiantati a Roma s’incontra nel cortile antico di San Toto, all’ombra della bandiera gialla con l’aquila bicipite simbolo dell’ortodossia.

Altro luogo d’incontro per i greci e anche per gli albanesi di fede ortodossa è la centralissima chiesa di Sant’Atanasio dei Greci, parte integrante dello storico Collegio Greco su via del Babuino. Qui la liturgia viene celebrata di volta in volta in diverse forme, tutte ugualmente affascinanti: greco medievale, albanese, serbo e a volte arabo-melchita.

Più defilata e meno appariscente delle altre chiese ortodosse, Sant’Antonio Abate, che era parte integrante del Collegium Russicum, raccoglie una parte dei fedeli di origine russa della capitale che mostrano di essere decisamente addolorati dallo scisma tra le chiese russa e ucraina che si è consumato da pochi anni. Avvenimento che forse, ma noi occidentali non l’abbiamo neanche sospettato, è stato un segno premonitore di quel che sarebbe successo nel 2022 ai confini orientali della nostra Europa.

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