La guerra sul corpo delle donne

La massa di capelli ricci di Narges Mohammadi, che ha vinto il premio Nobel per la pace ma continua a rimanere, proprio a causa di quei capelli ricci mostrati con orgoglio al mondo, ospite delle prigioni iraniane: condannata a sedici anni e 140 frustate per essersi schierata contro l’obbligo di indossare l’hijab e contro il «programma di castità» a cui la polizia morale dell’Iran costringe le donne. E ancora, i capelli corti da ragazzino e il piercing al naso di Armita Garavand, che aveva soltanto sedici anni e che è stata uccisa, picchiata a morte dalla polizia morale, per essersi rifiutata di coprire quel caschetto sfilzato e quel piercing sbarazzino. E poi, i capelli al vento liberati all’improvviso da tante ragazze donne iraniane, ragazze e donne malmenate e controllate da altre donne, quelle che indossano il lugubre sudario nero della polizia morale, quelle che nella metro, nelle stazioni, agli angoli delle strade o nei negozi si assicurano che neanche una ribelle ciocca di capelli o un polso o una caviglia siano esposti allo sguardo dei passanti. L’onore della famiglia, della società e del Governo risiede nelle chiome femminili.

Da quando Ebrahim Raisi è diventato presidente dell’Iran l’applicazione delle rigide regole sociali e religiose è stata ulteriormente rafforzata

Da quando Ebrahim Raisi è diventato presidente dell’Iran l’applicazione delle rigide regole sociali e religiose è stata ulteriormente rafforzata e Raisi ha ordinato a tutte le «entità e istituzioni responsabili» di elaborare una strategia per intensificare l’applicazione dell’hijab. Le violazioni, ha detto, danneggiano i valori della Repubblica islamica e «promuovono la corruzione». Il procuratore capo dell’Iran si è dichiarato favorevole a impedire alle donne «impropriamente coperte» di accedere ai servizi sociali e governativi, compresa la metropolitana. Il Ministero della Guida ha ordinato ai cinema di non mostrare più le donne nelle pubblicità.

Come in Afghanistan, poco più in là. Dove donne e bambine sono state letteralmente cancellate dalla faccia della Terra. Private dell’istruzione, del lavoro, di assistenza medica perché tra poco, senza ragazze laureate, cominceranno a scarseggiare anche i medici donna. Ed essere curate da un uomo è contro la legge. Così come è contro la legge andare in palestra, dal parrucchiere, al parco o viaggiare senza un accompagnatore maschile. È contro la legge fare l’attrice, la cantante o anche leggere le notizie in televisione. È contro la legge essere donna, in pratica. A meno che tu non sia relegata in casa e all’unico compito che ti compete: fare figli e allevarli. E, se i figli per disgrazia sono di sesso femminile, liberarsene appena possibile dandole in moglie in età prepubere a un bravo combattente timorato di Dio. Che in genere, se si deve giudicare dalla documentazione video che gira sui social e dai libri pubblicati, preferisce gli uomini: ma questa è un’altra storia.

La storia delle donne, invece, continua anche di là del confine, in Pakistan. Continua con il volto scavato e i capelli neri e lisci, appena coperti da uno scialle per ripararsi dal freddo, di Mahrang Baloch. Mahrang, che è una dottoressa. Mahrang che urla in strada fin da quando era poco più di un bambina contro il genocidio del suo popolo. Mahrang, a cui hanno fatto sparire il padre, ritrovato poi quattro anni dopo cadavere, con segni di tortura. Mahrang, a cui l’esercito pakistano ha fatto sparire anche il fratello. Mahrang che si è messa a capo di centinaia di donne e bambine che hanno camminato dal Belucistan a Islamabad, come facevano un tempo le madri della Plaza de Mayo in Argentina, per chiedere il ritorno dei loro cari scomparsi. Per chiedere che il vero e proprio genocidio a cui sono soggette abbia fine. Perché sono stanche di essere soltanto vittime senza voce. Il rapimento di donne e bambini in Belucistan (regione tra l’Iran sud-orientale e la bassa valle dell’Indo, in Pakistan) non è una novità, anzi. In passato ci sono stati casi, diversi casi, di donne rapite, detenute e torturate, usate come schiave sessuali dai militari e poi gettate via. Tuttavia è difficile avere dei numeri perché, come sempre accade in questi casi, le donne si vergognano di raccontare. Ali Arjumand, un cittadino norvegese «scomparso» per dodici anni nelle celle «segrete» dei servizi pakistani, ricorda molto bene le donne violentate e torturate, e una di loro lasciata morire dissanguata davanti alla sua cella. Le organizzazioni che rappresentano il popolo del Belucistan e i gruppi di attivisti per i diritti umani dicono: «Abbiamo redatto una lettera per richiamare l’attenzione sul continuo abuso dei diritti delle donne beluci da parte delle forze armate pakistane. Negli ultimi anni le donne che protestavano contro le sparizioni forzate sono state minacciate, attaccate e fatte sparire. Sono state tenute in celle di tortura dell’esercito dove molte hanno subito abusi sessuali».

In Afghanistan è contro la legge essere donna. A meno che tu non sia relegata in casa e all’unico compito che ti compete: fare figli e allevarli

Ci sono voluti anni e anni per portare alla luce gli orrori degli stupri di massa durante la guerra in Bangladesh (sempre da parte dell’esercito pakistano), e ci vorranno anni, quando e se tutto questo sarà finito, per fare luce sugli orrori subiti dalle donne beluci. Così come ci vorranno anni per rendere giustizia alle donne israeliane stuprate, brutalizzate, torturate, bruciate vive e macellate come animali dai terroristi di Hamas. Orrori per cui si domandano ancora prove, dopo che le prove sono state fornite in diretta dai loro assassini durante il massacro del 7 ottobre. Dopo che le prove sono state visionate, verificate indipendentemente, passate al vaglio da giornalisti ed esperti vari. Ma no, non basta. Non tutte le organizzazioni che dovrebbero difendere le donne, le marce che domandano la fine del patriarcato, dicono qualcosa. Molte se ne stanno in silenzio. Chiedono prove, come nelle caso delle israeliane. O tacciono, come nel caso delle iraniane o delle baluci, in nome di un malinteso «rispetto della loro cultura». O non menzionano l’hijab, come nel caso delle afghane, ma soltanto il divieto di studiare. Oppure, per restare più vicino a noi, non scendono in piazza per la povera Saman Abbas macellata nel 2021 dalla sua famiglia in Italia: per i capelli al vento, per una fascia rossa, perché voleva essere libera. «Intimiditi come siete dalla paura d’andar contro corrente cioè d’apparire razzisti, non capite o non volete capire», scriveva Oriana Fallaci ne La rabbia e l’orgoglio. Le voci delle donne ebree, di quelle iraniane, delle beluci vengono silenziate in nome di agende politiche, di un malinteso senso di rispetto per le culture «altre» o di pura e semplice ignoranza. E le guerre, quelle fisiche e quelle culturali, continuano così a combattersi sul corpo delle donne. E sui loro capelli.

Ragazze israeliane piangono le compagne uccise e stuprate da Hamas. Sotto: foto dell’iraniana Narges Mohammadi, imprigionata e frustata per essersi schierata contro l’obbligo di indossare l’hijab. (Keystone)

(Credits)

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