Meno spazio, per uno spazio migliore

by Claudia

La buona notizia di qualche tempo fa, sempre che sia lecito questo aggettivo, è che in dieci anni abbiamo ridotto i rifiuti alimentari dai 60 kg a testa del 2012 ai 50 del 2022, quella invece che ci fa poco o nulla onore è che a testa ancora riusciamo a produrre circa 148 kg all’anno di rifiuti globali, ossia qualcosa come due o tre volte il nostro peso fisico. Visto in altri termini, anno dopo anno moltiplichiamo la nostra presenza fisica sotto forma di rifiuti che consegniamo a terzi da smaltire. I centri di raccolta, o ecocentri, diventati in alcune località vere e proprie stazioni di smistamento «fai da te», hanno sicuramente fatto la loro parte, prendendosi a carico plastiche e altri rifiuti speciali, nonché il nostro senso di colpa a fronte della mole di oggetti che ci ritroviamo regolarmente a buttare. Senza dubbio anche in Svizzera ci si è nel frattempo specializzati nel riciclaggio di parte di ciò che gettiamo, ma resta il fatto che siamo costantemente intenti a consumare; come ha sottolineato Katrin Schneeberger, direttrice dell’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM): siamo più sensibili verso la raccolta differenziata, meno nei confronti dello spreco di cibo. Risulta dunque difficile, almeno sul breve termine, individuare delle soluzioni capaci di invertire un trend che denota anche un atteggiamento di certa noncuranza verso cose e cibo.

Gli sprechi, però, non riguardano unicamente le cose, ma anche l’immaterialità rappresentata dallo spazio, e per farsene un’idea basta attraversare il Ticino, con le sue ampie zone in cui la pianificazione pare più frutto di caso e necessità, che non di una oculata considerazione del territorio. Poiché l’inarrestabile fenomeno dell’espansione urbana – in tutte le sue forme – e dunque del consumo del terreno non riguarda unicamente le nostre latitudini, vi è chi altrove, nel desiderio di trovare una soluzione unica al problema della mancanza di spazio, nonché a quello della produzione di rifiuti, si è organizzato, dando vita a un particolare movimento, quello delle Tiny Houses, traducibile con qualcosa come il «Movimento delle piccole case».

Trattasi de facto di micro abitazioni indipendenti, non necessariamente situate in boschi o altri luoghi idilliaci come le si trova in internet, ma potenzialmente anche in cortili, giardini privati o aree dismesse. Ogni centimetro di una Tiny House è studiato e ponderato, dai mobili alla luce, alla quantità di cose, per uno sfruttamento ottimale e il più possibile naturale. Le microabitazioni, infatti, costringono a un ripensamento dello spazio, pubblico e privato, e a uno stile di vita più oculato, in cui al vaglio, per motivi di posto, passa anche la spesa, come dimostra la quotidianità all’interno delle Love House 1 e 2 (18 mq) dell’architetto Takeshi Hosaka a Tokyo; oppure l’estrema Casa Keret di Varsavia (chiamata così in onore allo scrittore israeliano Etgar Keret), costruita addirittura nel vano tra due palazzi, con una larghezza che oscilla tra i 92 e i 152 centimetri; o ancora, l’insediamento di Grienen, vicino a Winterthur, con alcuni dei suoi abitanti che vivono in carrozzoni da circo dismessi o in una iurta.

Senza arrivare a dovere rivoluzionare le nostre vite o tantomeno volere indicare la Tiny House come panacea di tutti i mali, una cosa questo movimento ce la sta comunque dimostrando: forse è proprio pensando in piccolo, con poco, ma in modo strutturato, che si può finalmente invertire un trend come quello del consumo sfrenato che genera tonnellate di rifiuti e divora incessantemente spazio. E forse, si tratta di un genere di pensiero che darebbe anche aria fresca alle nostre idee.

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