A quattro anni dall’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, i britannici bocciano la Brexit: ha avuto un impatto negativo sull’economia, contribuito ad un innalzamento generale dei prezzi e ha pure ostacolato, invece che facilitare, la politica del Governo per controllare l’immigrazione, al contrario di quanto a suo tempo propagandato dalla campagna Vote Leave. È quanto emerge da un sondaggio condotto da Opinium e pubblicato da «The Guardian», secondo il quale solo per un interpellato su 10 lasciare l’Ue ha recato benefici alle finanze personali a fronte del 35% che reputa invece di averne subito un danno. Anche il National Health Service (NHS) con le sue liste d’attesa che peggiorano di giorno in giorno, e scioperi continui, non ha tratto giovamento dall’addio a Bruxelles. Solo il 9% dei sudditi la pensa diversamente, a fronte del 47% per il quale dal 2021 il servizio sanitario nazionale – da sempre fiore all’occhiello del welfare britannico – è decisamente peggiorato. Come biasimarli d’altronde. Migliaia di cosiddetti «junior doctor» – ovvero medici qualificati ma ancora impegnati nella decennale specializzazione post-laurea – hanno appena avviato il 2024 incrociando le braccia per 6 giorni, mettendo a dura prova l’erogazione dei servizi e delle cure essenziali visto che costituiscono circa la metà del personale medico nazionale. Si tratta del più lungo sciopero nella storia dell’NHS. E pensare che uno degli slogan vincenti di Boris Johnson e degli altri «brexiter», era stato «basta soldi a Bruxelles e 350 milioni di sterline in più alla settimana al servizio sanitario nazionale». Una delle tante boutade che condizionarono certamente il voto del 23 giugno del 2016 quando il 52% della popolazione si espresse a favore dell’uscita dal mercato unico, senza sostanziarsi tuttavia in nulla se non un deterioramento dello status quo.
Un altro baluardo della campagna per lasciare l’Unione europea era stata la presunta riacquisizione del controllo dei confini, con conseguente diminuzione dell’immigrazione. Il risultato? Forse un declino degli arrivi dalla Ue, ma di sicuro un boom di quelli extra Ue. Secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica (ONS), infatti, nell’anno fino a giugno del 2023 hanno stabilito la propria residenza nel regno 1,2 milioni di persone a fronte delle 508mila che se ne sono andate, con un saldo netto dunque di 672mila ingressi in più. Se fino al 2019 i cittadini Ue rappresentavano la più ampia componente degli immigrati, dal 2021 la stragrande maggioranza degli arrivi sono extra-comunitari. Per la precisione, a giugno dello scorso anno erano 968mila e costituivano pertanto l’82% dell’immigrazione totale. Provengono in particolare dall’India (253mila), Nigeria (141mila), Cina (89mila), Pakistan (55mila) e Ucraina (35mila). Non sorprende dunque che secondo l’indagine di Opinum basata su un campione di 2132 adulti, oltre il 53% di quanti avevano votato per uscire dalla Ue ora pensi che Brexit abbia avuto un effetto negativo sulla capacità del Regno Unito di controllare l’immigrazione.
Certamente ha causato una maggiore instabilità politica ed una diminuzione degli investimenti, come ha ammesso lo scorso mese lo stesso Jeremy Hunt. «Abbiamo avuto Brexit, che ha portato ad un Parlamento senza maggioranza e a sua volta ad una fase incredibilmente ardua sotto un profilo politico», ha dichiarato infatti il cancelliere dello Scacchiere ad un evento organizzato dalla Resolution Foundation in collaborazione con il Centro per la Performance Economica (CEP) della London School of Economics. «I britannici avevano votato a favore dell’uscita dalla Ue, ma il Parlamento non riusciva a raggiungere un accordo su come farlo. Dopodiché abbiamo avuto la caduta del Governo di Theresa May e poi pure la pandemia», ha spiegato il ministro Tory, auspicando d’ora in avanti una maggiore stabilità. Contrariamente alla visione del premier Rishi Sunak – da sempre pro-Brexit e convinto che sarebbe stata un volano per l’economia del Paese – secondo il 63% dei britannici, lasciare l’Unione ha avuto un impatto determinante sull’impennata di inflazione e costo della vita.
Ed è proprio sul costo della vita che si giocherà la campagna elettorale per le politiche nei prossimi mesi. Seppure la maggioranza dei sudditi di Re Carlo III giudichi la Brexit un fallimento, la questione dell’appartenenza o meno alla Ue non avrà più un ruolo dirimente come avvenuto nelle due consultazioni elettorali precedenti. L’attenzione degli elettori di ambedue le fazioni, infatti, è ormai concentrata sulle bollette da pagare per arrivare a fine mese, sui servizi pubblici in affanno e sull’agonizzante crescita economica. Con l’addio a Bruxelles, i conservatori non hanno procurato il cambiamento che i britannici caldeggiavano e pertanto si è diffusa la convinzione che solo cacciandoli si possa perseguire l’obiettivo. I laburisti di Keir Starmer, ormai in testa a tutti i sondaggi, saranno in grado di centrarlo ed imprimere finalmente al Regno l’agognata svolta post Brexit?