Ritratto senza filtri degli influencer

Sentiamo ripetere in continuazione il termine «influencer». Questa parola – l’Accademia della Crusca la traduce in italiano con «influenzatore» mentre Wikipedia con «celebrità di internet» – è talmente diffusa da essere diventata un’etichetta piuttosto vaga. L’influencer, d’altronde, è una figura ibrida, al confine tra mondo online e offline. Per fare chiarezza sul tema e approfondirlo, Maria Angela Polesana, professoressa associata di Sociologia dei media allo Iulm di Milano, ha appena pubblicato un libro intitolato Influencer e social media (FrancoAngeli).

Maria Angela Polesana, ci spiega la figura dell’influencer?
L’influencer è una persona che costruisce il seguito, la popolarità e quindi il successo sulla capacità di aggregare attorno a sé una comunità affettiva grazie alla narrazione visuale (condividendo foto e video) e testuale della propria vita. Si tratta cioè di un racconto identitario che trae vantaggio dalla curiosità dei follower, dalla loro partecipazione emotiva e dall’identificazione con situazioni di vita quotidiana. La quotidianità viene caricata di dimensioni comiche, ironiche o surreali in base alla capacità creativa dell’influencer che, di fatto, è un creatore di contenuti. L’influencer è una micro-celebrity capace di creare intimità, relazione e accessibilità per favorire un senso di prossimità con i follower e lo sviluppo di una relazione affettiva con la propria comunità. Per risultare credibile e trasparente dichiara le sponsorizzazioni che promuove, manifestando sintonia tra il proprio stile di vita e i propri valori e quelli del brand, usando spesso un registro ludico che esprime emozioni positive.

Perché esistono gli influencer?
Questo tipo di figura si è imposta perché viviamo in uno stato di connessione continua, in ambienti governati dalle logiche capitalistiche che muovono le piattaforme. Ricordiamoci, infatti, che dietro agli algoritmi dei social media ci sono esseri umani con i loro interessi economici. L’ideologia neoliberale spinge gli individui a gestirsi come se fossero una marca (il cosiddetto self-branding) con l’obiettivo di attirare l’attenzione delle aziende per firmare contratti vantaggiosi.

Lei scrive che ci sono diversi tipi di influencer. Ci può fare qualche esempio?
Ci sono diversi tipi diversi di influencer in relazione al settore cui appartengono – ad esempio il food (Benedetta Rossi), il fashion (Chiara Ferragni), la cosmesi (Giulia De Lellis) e il turismo (Giovanni Arena) – e alla dimensione del loro audience. In base a quest’ultima, possiamo distinguere tra: nano influencer (con meno di 10’000 follower); micro influencer (tra i 10’000 e i 50’000 follower); macro influencer (tra i 500’000 e il milione di follower); mega influencer (oltre un milione di follower). Se è infattibile rispondere a milioni di follower, è invece possibile farlo con piccoli numeri. Di conseguenza le aziende, i brand, sono interessati anche ai nano o ai micro-influencer perché sanno di poter contare su un maggiore coinvolgimento da parte della comunità che li segue.

Sembra che, soprattutto per certi lavori, dovremmo diventare tutti degli influencer per avere davvero successo. Perché ci troviamo in questa situazione?
Perché la nostra vita è sempre di più ibridata con i social media. E la loro frequentazione continua ha avuto un impatto sulla nostra percezione, sul nostro comportamento e sulla nostra socialità. La lucidità, la sintesi e la semplificazione che caratterizzano le modalità di comunicazione degli influencer, e che risentono dei media in cui avvengono, ci hanno abituato a ritmi diversi e a modalità di interazione orizzontali.

Per i più giovani ci sono modelli alternativi a quelli degli influencer?
Sì, pensiamo, ad esempio, a Greta Thunberg, Elon Musk e Samantha Cristoforetti, solo per citare qualche nome. I genitori stessi continuano ad avere un ruolo centrale nella formazione dei figli e a rappresentare delle fonti di ispirazione. E aggiungerei anche i nonni (cui spesso i miei studenti dedicano la loro tesi di laurea) che oggi, più ancora che in passato, spesso crescono i nipoti perché le madri e i padri sono impegnati al lavoro. E comunque vanno fatti dei distinguo tra gli influencer. Ci sono, ad esempio, i bookinfluencer che promuovono la lettura dei libri tra i ragazzi. Si pensi al caso recente del libro Il fabbricante di lacrime di Erin Doom, pubblicato su Wattpad, piattaforma di condivisione di storie, che ha superato i 6 milioni di lettori e poi, anche grazie ai booktoker, ha venduto 450’000 copie cartacee. L’hashtag #EricDoom ha raccolto 20 milioni di visualizzazioni.

Crede che sia sbagliato giudicare negativamente la figura degli influencer?
Sì, non dobbiamo giudicarli male. Certo, non possiamo negare le conseguenze negative dell’esibizione di corpi perfetti sui social, né ignorare l’ansia e l’insoddisfazione indotte dal confronto con modelli di successo economico spesso irraggiungibili. È bene ricordare che la frustrazione è spesso figlia degli stereotipi che aleggiano sulle figure degli influencer. Si pensa che siano diventati facilmente ricchi, famosi e quindi anche felici, grazie alla loro sola passione. In realtà ci sono moltissime persone che cercano di diventare influencer e falliscono.

Secondo lei sono modelli destinati a durare?
Gli algoritmi cambiano repentinamente, costringendo gli influencer a produrre contenuti sempre diversi, pena la perdita di popolarità. Alcuni di loro sono sottopagati, senza tutele, al punto che in Italia, nel 2018, è nata l’Associazione Assoinfluencer con l’obiettivo di tutelarne la professione. La sopravvivenza degli influencer richiede sempre più abilità autopromozionali e di marketing. Inoltre oggi molte aziende si rivolgono ai cosiddetti virtual influencer, interamente creati al computer: tra i più conosciuti Lil Miquela. Sono più economici, quindi più convenienti per le aziende, e soprattutto totalmente controllabili e perciò meno rischiosi.

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