Stati Uniti, democrazia a rischio

È l’anno di tutte le elezioni. Si comincia con Taiwan, dove il risultato può essere cruciale per la stabilità nell’Indo-Pacifico. Voterà in primavera la più grossa di tutte le democrazie, l’India. Si rinnoverà l’Europarlamento. Ma la più importante di tutte sarà l’elezione presidenziale (e congressuale) di novembre negli Stati Uniti, un test sulla tenuta della più antica tra le liberaldemocrazie. Vista da sinistra: Donald Trump rischia seriamente di vincere e quindi un leader che disprezza le istituzioni democratiche (come dimostrò il 6 gennaio 2021) potrebbe trascinare la Repubblica americana verso il baratro di un’autocrazia. Vista da destra: il partito democratico pur di impedire la libera espressione della volontà popolare sta cercando di «cancellare» il nome di Trump rendendolo ineleggibile per via giudiziaria, con procedimenti aperti in 33 Stati su 50. Vista dal resto del mondo: la salute della democrazia Usa suscita apprensione in molti Paesi alleati e speranze in molte autocrazie; inoltre vi sono ricadute importanti in politica estera, soprattutto se l’America dovesse scegliere un ritorno a politiche unilateraliste o perfino isolazioniste.

Sullo sfondo c’è la debolezza, fisica e politica, di Joe Biden. Ancora pochi mesi fa il presidente rispondeva così alle obiezioni sulla sua età avanzata: sono io il candidato più adatto a sconfiggere Trump perché ci sono già riuscito (a differenza di Hillary Clinton). Oggi questo argomento non fa presa, alla luce dei sondaggi che assegnano un vantaggio all’ex presidente repubblicano. Biden non si capacita della «ingratitudine» degli americani. L’economia scoppia di salute, è di gran lunga la più prospera del mondo e aumenta il suo vantaggio su Europa e Cina; il mercato del lavoro è vicino alla piena occupazione; i salari aumentano. I piani di reindustrializzazione dell’America avanzano, così come la transizione verso un’economia meno carbonica. Eppure l’insoddisfazione cresce, le classi lavoratrici preferiscono Trump, lo slittamento a destra coinvolge anche le minoranze etniche (black, latinos, asiatici). Perfino i giovani cominciano a disertare Biden, nonostante lui abbia ricevuto l’appoggio della superstar pop Taylor Swift: il conflitto in Medio Oriente è una delle cause di questa disaffezione, vista la popolarità di Hamas nella sinistra giovanile.

La base democratica a maggioranza non vuole che Biden si ricandidi. Ma il consenso finisce qui. Se il presidente in carica facesse un passo indietro si riaprirebbe uno scenario simile al 2020, segnato da spinte centrifughe. Il più noto dei candidati potenziali è il governatore della California, Gavin Newsom. Ma la California, insieme a New York, è una vetrina dei disastri compiuti dalla sinistra radicale: eccessiva pressione fiscale, invadenza burocratica, incapacità di controllare l’immigrazione, aumento della criminalità, onnipresenza dei senzatetto, esodo di popolazione verso altri Stati Usa (Texas e Forida). Sul fronte repubblicano Trump ha promesso che «sarà dittatore, ma solo per un giorno». La frase allude al progetto di far piazza pulita del deep state: quell’establishment che controlla gli apparati burocratici e sabotò le riforme più dirompenti del primo Trump. Una occupazione dello Stato da parte di fedelissimi dovrebbe consentire al Trump 2 di spingersi molto più avanti, in particolare nel controllo dei flussi migratori e nell’azione contro la criminalità. Verrebbe meno la penalizzazione delle energie fossili. Al resto del mondo Trump annuncia la riduzione dell’impegno americano nella Nato e in Estremo Oriente, il ridimensionamento degli aiuti all’Ucraina. Tutte cose popolari in un’America che si sente in declino, e non solo a destra. Con lui i democratici hanno giocato agli apprendisti stregoni: fanno di tutto per aiutarlo a vincere la nomination repubblicana, convinti che sia l’avversario più facile da battere; ora i sondaggi dicono che lui potrebbe riconquistare davvero la Casa Bianca. Forte del suo enorme vantaggio virtuale sui rivali, Trump non ha partecipato ai dibattiti televisivi con i candidati della destra. Le primarie di gennaio in Iowa e New Hampshire devono dire se davvero quel vantaggio è incolmabile. I più quotati restano il governatore della Florida Ron DeSantis e l’ex ambasciatrice all’Onu Nikki Haley. Stando alle indagini demoscopiche, tutti e due possono battere Biden in un duello finale. La parte più difficile viene prima: staccare da Trump la base più militante del partito.

Molti elettori sono insoddisfatti dal remake Biden-Trump, non si riconoscono in questa sfida tra i due ottuagenari. Lo conferma il proliferare di candidature indipendenti. Robert Kennedy Jr ha lasciato il partito democratico, con un tradimento della storia familiare, e pesca consensi ai due estremi dello spettro politico. Cornel West piace ai giovani radicali dei campus universitari e a Black Lives Matter. Jill Stein corre di nuovo per i Verdi. Nessuno ha chance di vincere, ma le loro percentuali pur piccole avranno un peso nel rubare voti decisivi ai big; tutti insieme possono danneggiare più Biden che Trump. Resta possibile anche una nuova candidatura no label («senza etichetta»), un ticket misto democratico-repubblicano per offrire una vera alternativa.

I giudici sono onnipresenti in questa campagna elettorale. Trump ha quattro processi a carico. Alcuni sono pretestuosi e avallano la certezza dei suoi fan su una persecuzione giudiziaria; altri sono fondati ma comunque vedono protagonista una magistratura di parte. Il calcolo dei democratici è questo: le incriminazioni, e forse qualche condanna, rafforzano Trump presso la base repubblicana più estremista, quindi «blindano» la sua nomination; ma possono costargli il sostegno decisivo di elettori moderati e indipendenti nel duello finale. Due Stati Usa hanno già deciso la ineleggibilità di Trump, altri potrebbero imitarli; la Corte suprema federale avrà la parola finale. Il protagonismo della magistratura potrebbe concludersi proprio con un’elezione contestata davanti alla Corte suprema. Stile Bush-Gore 2000. A differenza che nei tribunali di grado inferiore, spesso dominati dai democratici, tra i giudici costituzionali prevalgono i conservatori con una maggioranza 6 a 3. Dieci mesi, è il tempo rimasto a Biden – o chi per lui, se l’anziano presidente rinuncia a ricandidarsi – per riconquistare le classi lavoratrici, e «salvare il mondo da Donald Trump». Le due cose sono legate. I pericoli di un Trump bis sono reali: forse per la democrazia americana, di sicuro per le alleanze tra Nazioni del mondo libero. La rielezione di Trump è diventata meno improbabile perché si è rafforzato tra le classi lavoratrici, i non-laureati: quasi due terzi dell’elettorato.

Lungi dal declinare, la classe operaia è più centrale che mai, i suoi confini si sono allargati. Dalle fabbriche (che conoscono una rinascita) il lavoro non-laureato spazia alle attività di servizio come badanti, fattorini per le consegne, addetti alla vigilanza o alle pulizie, camionisti, dipendenti dei trasporti e della distribuzione, personale di ristoranti e alberghi. Con un ribaltamento della rappresentanza politica – iniziato in America ben prima di Trump, ora in atto anche in Europa – queste categorie si riconoscono nella destra, mentre la sinistra egemonizza i laureati. L’aspetto più sconcertante nel sostegno popolare alla destra è che si rafforza pure tra le minoranze etniche. Se si votasse oggi, Trump sarebbe il repubblicano con il massimo consenso della storia tra latinos e afroamericani. È in corso nei settori meno dogmatici del partito democratico uno sforzo di capire il perché di questo slittamento a destra dei lavoratori. Sul fronte economico, è onesto ricordare che i progressi ebbero inizio sotto Trump. La riduzione dei flussi migratori illegali migliorò le condizioni dei salariati, in base a una legge di mercato antica e implacabile: l’immigrazione incontrollata indebolisce il potere contrattuale dei lavoratori. Cominciarono sotto Trump anche i generosi aiuti anti-Covid alle famiglie, poi prolungati da Biden. Fu Trump a imporre con i dazi la drastica revisione dell’apertura alla Cina, poi proseguita da Biden che abbraccia il protezionismo del suo predecessore. Non è strano che una parte degli elettori si fidi più dell’originale.

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