Sul tetto del Conservatorio c’era Mendelssohn

Fu un ordine tassativo. Impossibile eluderlo, veniva da molto in alto. Da Reinhard Heydrich, nominato dallo stesso Hitler nella primavera del 1941 governatore del Protettorato di Boemia e Moravia. Uno degli uomini più terribili del Terzo Reich, un feroce assassino ideatore della «soluzione finale» del problema ebraico nella conferenza di Wannsee.

Da ragazzo suonava il violino nel quartetto di famiglia e amava la musica di Mozart, che per lui era tedesca, anche se dentro c’era la massoneria e «chissà cosa diavolo ancora». Non poteva quindi perdersi il Don Giovanni nella sala da concerto del Rudolfinum di Praga, ormai casa tedesca delle arti. Ma qualcosa lo aveva infastidito: la statua di un musicista ebreo sulla balaustra dell’edificio che, a suo parere, bisognava assolutamente rimuovere. Una follia, ma del tutto consona allo spirito del tempo: un vero nazista non sopportava certo un simile affronto.

In questo singolare romanzo, dove anche l’orrore è come ammorbidito da uno stile singolare e coinvolgente, c’è talvolta un colpo di fortuna

Sembra l’incipit di un romanzo picaresco, impregnato di uno humour un po’ surreale, ma in realtà Sul tetto c’è Mendelssohn dello scrittore ceco Jiří Weil, edito da Einaudi nella bella versione di Giuseppe Dierna, è una storia, ambientata nella Praga occupata dai tedeschi (nella foto l’entrata dei nazisti in città), di persecuzioni e violenze naziste, un doloroso e tragico capitolo della Shoah, in cui nemmeno le progressive sconfitte della Germania possono portare un raggio di luce.

Figlio di genitori ebrei ortodossi, Weil, traduttore e giornalista, nato nel 1900 in un paesino non lontano da Praga, trascorse un paio di anni a Mosca dal 1933 al 1935, per poi essere espulso dal partito comunista per le sue critiche ai processi politici. Tornato nella capitale ceca pubblicò un resoconto delle purghe staliniane, La frontiera di Mosca, e sopravvisse, più tardi, all’Olocausto, grazie a una serie di sotterfugi, compreso un matrimonio combinato e un finto suicidio nella Moldavia. Vicende che stimolarono sia il romanzo del 1949, Una vita con la stella, sia la storia della statua di Menddelssohn, uscita nel 1960, un anno dopo la morte dell’autore molto ammirato da Philip Roth che lo paragonò a Babel’.

Di statue nel romanzo ce ne sono a iosa, come una sorta di leitmotiv che attraversa le innumerevoli vicende tragicomiche in cui si condensa tutto il male di un’epoca. Ma purtroppo quella che Bečvář e Stankovský, i due inservienti cechi in bilico sul tetto cercavano, era difficile scovarla. Sembravano tutte uguali. Nemmeno il dottor Rabinovič, un dotto giudeo inviato dalla Comunità ebraica su ordine delle SS, ci riesce. Poi a qualcuno viene in mente che la statua giusta è quella col naso grosso, come hanno tutti gli ebrei secondo la «scienza della razza». Dev’essere allora quella col basco, dice Bečvář, nessun’altra ha un naso del genere. Peccato poi che la statua col cappio al collo depositata più tardi sulla balaustra, sia in realtà quella di Richard Wagner, il più grande compositore tedesco.

L’episodio iniziale si proietta nel romanzo quasi a mitigare quel senso ineluttabile di morte che gira per la città e che all’epoca sembra non risparmiare nessuno e scivola accanto a chiunque. Persino al potentissimo Heydrich, che controllava l’intero apparato delle SS, vittima di un attentato organizzato da partigiani cecoslovacchi con l’aiuto dell’intelligence inglese. Mentre intanto all’Est si intensificano le eliminazioni con l’utilizzo del gas Zyklon, rapido e sicuro, e si localizzano nuovi insediamenti e lager come Terezín dove concentrare tutti gli ebrei evacuati, i cui beni riempiono grandi magazzini.

Eppure in questa terribile realtà, in cui tutto sembra «trasformarsi in pietra», la vita cerca riparo con la forza della speranza e dei sentimenti. C’è chi, come Jan Kruliš, mette al sicuro le giovanissime sorelle Adéla e Gréta, nipoti dell’amico Vorlitzer stroncato da una grave malattia, e nel frattempo si avvicina a un gruppo della resistenza. E chi, come l’ebreo Richard Reisinger, uomo dai mille lavori che ora fa il portiere presso la Comunità ebraica e per forza di cose si trova non di rado in compagnia di criminali e assassini della Gestapo, come fosse «nemico della sua stessa gente». Anche lui alla fine si convince che combattere è ancora possibile per la pace e la libertà.

Weil non risparmia le scene più crudeli come l’esecuzione di nove condannati che avevano solo commesso reati insignificanti, ma lascia in-travedere una fiduciosa attesa. Nel silenzio generale risuona un’unica parola: Stalingrado! Purtroppo la sconfitta tedesca è ancora lontana, mentre sempre più numerosi sono i convogli carichi di uomini, donne e bambini al gelo diretti verso la morte. Anche Franz Schönbaum, che prima della guerra arredava le abitazioni dei ricchi e lavorava in un famoso teatro di sinistra, si chiede quando sarà il suo turno, mentre il dotto Rabinovič, che un tempo parlava di Talmud e di Cabala, non ha più dubbi dal momento che le SS lo hanno caricato su un treno che ha un’unica destinazione.

Eppure in questo singolare romanzo, dove anche l’orrore è come ammorbidito da uno stile singolare e coinvolgente, scorrevole e vivace, c’è talvolta un colpo di fortuna. Ne sa qualcosa l’inserviente Bečvář licenziato dal comune a causa della statua e spedito lontano nel Reich, ma rientrato poi a casa per aver salvato una ricca signora. Ben diverso sarà il destino delle bambine Adéla e Gréta sorprese per strada dalla polizia e picchiate a morte. Mentre la terra è ormai solo un deserto pietrificato dalla violenza, loro sembrano però librarsi su un paesaggio che torna a fiorire, in una natura che riprende a vivere. È il gesto solidale di Weil, che riabbraccia la speranza anche quando nasce da tanto dolore.

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