La guerra di Gaza non è più la guerra di Gaza. Ammesso lo sia mai stata. Indipendentemente da quelli che saranno i prossimi sviluppi militari, la questione della Striscia va letta in controluce, su scala ampia. Il potere oggi in controllo a Tel Aviv sembra deciso a farne la base di una rivoluzione geopolitica mediorientale di larga ambizione e lungo termine, che affermi il suo controllo sulla Terra di Israele, in lato senso biblico. Spazio ovviamente abbastanza flessibile – Dio non fa il cartografo – che nella sua espressione più vasta andrebbe dal Nilo all’Eufrate e dal Mediterraneo al Mar Rosso, a occidente, o al Golfo Persico, a oriente. Nella versione ridotta, ovvero riportata dalla metastoria alla relatività dei rapporti di forza correnti, Israele si accontenterebbe dell’annessione di Cisgiordania, Gaza e di parti del Libano meridionale, da sommarsi alle già integrate alture siriane del Golan. Così, almeno, nelle espressioni e nella cartografia delle fazioni più estreme della destra oggi al Governo, sotto (o sopra?) Netanyahu. E del suo leader più disinibito, il ministro delle Finanze e di fatto vicerè di Giudea e Samaria (Cisgiordania), Bezalel Smotrich, che ha preso in mano una quota rilevante degli apparati militari e di sicurezza israeliani.
Questa visione parte dall’interpretazione dell’attacco di Hamas del 7 ottobre come segno dell’irriducibile disegno permanente della resistenza palestinese: distruggere lo Stato ebraico. È la presa d’atto del fallimento della tattica israeliana, che giungeva fino a finanziare Hamas con i dollari del Qatar fatti arrivare a Gaza pur di mantenere diviso il fronte palestinese. Il massacro del 7 ottobre ha rotto la diga, anche se diversi analisti israeliani sono convinti che Hamas ne abbia perso il controllo e non ne abbia quindi valutato tutte le conseguenze. È un salto di fase e di scala dalle conseguenze incalcolabili. Perché accelera un conflitto senza limiti e senza regole fra Israele e Hamas, ma soprattutto fra Tel Aviv e Teheran, che dell’islamismo palestinese è il supremo sostenitore e garante.
Sui due fronti si rafforzano gli ultrà. O dovremmo definirli apocalittici? Gente disposta a giocare con la guerra come fossimo prossimi al Giorno del giudizio. Confidiamo di esserne lontani, ma non c’è dubbio che la (il)logica mediorientale contribuisca ad avvicinarlo. La storia ci aiuta a capire. La grande strategia dell’impero persiano, di cui la Repubblica islamica è scartamento ridotto, consiste nell’estendere il proprio controllo dal Mediterraneo Orientale e al Mar Rosso fino al Golfo Persico (non Arabico) e all’Oceano Indiano a sud, all’Afghanistan occidentale (Herat) e a porzioni di Asia anteriore (specie Caspio). La direttrice Herat-Beirut (Hizbullah)-Gaza (Hamas), passante per Baghdad e Damasco, centrata su Teheran, disegna il campo d’azione della potenza iraniana. Ed è precisamente il perimetro dello scontro fra Israele e Iran, via suoi referenti regionali, non sempre obbedienti né perfettamente sotto controllo, come ad esempio gli huti padroni del «loro» Yemen.
Nell’attuale clima di paranoia, tutto viene riportato, a Tel Aviv come a Teheran, a componente di questo meccanismo semiautomatico. Sicché la guerra di Gaza vale come fattore di un’equazione abbastanza irrazionale, dunque molto affascinante: perfettamente in tono con le menti belliciste che imperversano nella regione. Seguiamo le tappe del percorso aperto a sorpresa da Hamas il 7 ottobre. Dalla vendetta israeliana in corso, che in ultima analisi mira a rendere Gaza inabitabile per i palestinesi, all’intensificazione delle ostilità fra ebrei e arabi in Cisgiordania, allo scambio di missili e bombardamenti sul fronte libanese fra Hizbullah e Tsahal (esercito di Israele), mentre anche il fronte siriano e quello iracheno si riscaldano. E ancora, la liquidazione del numero due di Hamas da parte di Israele a Beirut, la strage alla commemorazione del generale Suleimani nella città persiana di Kerman: non per forza di mano israeliana, ma immediatamente targata tale nel mondo islamico e non solo, proprio a causa del combinato disposto sopra descritto. Chiude il cerchio il blocco del Mar Rosso al traffico commerciale internazionale prodotto dalle incursioni piratesche degli huti, con rilevanti effetti sull’economia globale.
Facile e comprensibile lasciarsi trascinare lungo questo piano inclinato verso la sensazione che la guerra di Gaza sia stata il colpo di pistola dello starter di una nuova guerra regionale, forse mondiale. Stile Sarajevo. Per fortuna la storia non è già scritta e non procede mai linearmente. Pare evidente che in questa fase l’Iran non abbia né la voglia né la forza di impegnare uno scontro diretto con Israele, quindi con l’America. La quale America è troppo sovraesposta e afflitta da gravi problemi intestini per alimentare altri incendi. Resta però che a Tel Aviv prevalgono finora i radicali. Fautori della vittoria decisiva, ovvero del Grande Israele tra Mediterraneo e Giordano (almeno). Se poi questa visione sia nell’interesse dello Stato ebraico o dei suoi più assoluti nemici è la domanda cui non sappiamo rispondere. L’importante è non farsi travolgere dai fatti compiuti, lasciando che si accumuli una valanga alla fine infrenabile. Per gli spiriti fanatici significherebbe accettare la volontà di Dio. Facciamo perciò appello agli scettici, se ancora ve ne sono, perché solo dal dubbio può riprendersi il filo di un dialogo di pace.