Reportage - Ancora oggi il popolo perseguitato dall’Uomo Bianco continua a rivendicare la propria terra, ai piedi della catena montuosa Black Hills che si innalza dalle Grandi Pianure del Sud Dakota e si estende fino in Wyoming, nel nord-ovest degli Stati Uniti
«Le Black Hills mi appartengono. Se i bianchi tentano di rubarle, combatterò». Era questo il patto che aveva impresso sul cuore l’intrepido Tatanka Iyotake, passato alla storia come Toro Seduto. Per il condottiero dalle lunghe trecce nere, la resistenza del popolo Lakota contro il Governo degli Stati Uniti passava da questi clivi tinti di verde scuro. I nativi le chiamano He Sapa, sono «il cuore di tutto ciò che esiste».
Quello che si dischiude davanti agli occhi dei viaggiatori è un maestoso ecosistema di alture ricoperte di pini, conifere e immense praterie. La catena montuosa si innalza dalle Grandi Pianure del Sud Dakota e si estende fino in Wyoming, nel nord-ovest degli Stati Uniti. È lunga oltre duecento chilometri, con vette che arrivano a duemila metri. Il nome – le Colline Nere – deriva da una vegetazione così fitta da apparire assai tenebrosa in lontananza.
Le Black Hills appartenevano agli Oceti Sakowin, la confederazione di tribù alleate di lingua Lakota, Dakota e Nakota, che i rivali avevano soprannominato Sioux, i serpentelli. Un popolo in lotta per la propria esistenza sin da quando gli europei «scoprirono» questa terra e decisero di impossessarsi di ogni suo metro. Un assoggettamento progressivo, spietato, culminato nella seconda metà dell’Ottocento con la famigerata Gold Rush, la corsa all’oro nelle Colline. A lanciarla, nel 1874, fu la spedizione perlustrativa di un migliaio di uomini guidati dal tenente colonnello George Armstrong Custer e la maledetta scoperta di pepite. Fu la fine di tutte le garanzie concesse agli indiani Sioux dal Governo Usa con il Trattato di Fort Laramie, stipulato sei anni prima, che assicurava la proprietà delle Black Hills alle tribù.
I minatori sciamarono nelle colline, facendo razzia di oro, ma anche di altre preziose risorse. Il Governo americano provò a mettere una toppa solo nel 1980, quando la Corte Suprema stabilì come compenso dell’espropriazione, un risarcimento di centocinque milioni di dollari. Il fondo, mai accettato dai Sioux, è lievitato oltre il miliardo. Le colline non sono in vendita, appartengono ai nativi e ai nativi devono essere restituite. Oggi a deturpare l’area sono i siti minerari abbandonati, che avvelenano acque e suolo con materiale radioattivo, come denunciano gli attivisti. A questi temi, tra l’altro, è dedicato il bellissimo documentario dello scorso anno Lakota Nation vs. United States coprodotto dall’attore Mark Ruffalo sulla lotta degli indiani della nazione Lakota Dakota Nakota contro il furto della terra, il martirio degli indigeni e il razzismo endemico.
Il viaggio in questa regione dal fascino ancestrale inizia con le Badlands che delle Colline Nere sono considerate la porta di accesso. I calanchi – le «terre cattive» – schiudono un paesaggio spettacolare, fatto di canyon, pinnacoli e guglie naturali striate di viola e giallo, marrone e grigio, rosso e arancione, che si estende per quasi centomila ettari. Mozzafiato la Badlands Loop State Scenic Byway, un percorso che regala chilometri di pura bellezza. Impossibile non restare a bocca aperta dinanzi alla magnificenza silenziosa di questi panorami marziani. Proprio qui furono ambientate le avventure del tenente John Dunbar e il suo incontro con i Lakota nel più celebre dei western, Balla coi lupi, diretto e interpretato da Kevin Costner tra giugno e novembre del 1989.
Man mano che ci si avvicina alle Black Hills, la vegetazione diventa sempre più rigogliosa. Questa fetta d’America è territorio del bisonte. Per i nativi «l’American buffalo» rappresentava il centro dell’economia di sostentamento: una miniera preziosa di cibo, pelli, utensili, grasso. Un tempo le mandrie dominavano le Colline, adesso nei parchi ne restano in libertà meno di duemila esemplari. Gli allevamenti sono per lo più ricettacolo di turisti che cercano di rivivere le emozioni del Far West. Gli stessi esploratori che fanno la fila per vedere il patriottico Mount Rushmore National Memorial.
La più nota delle attrazioni delle Black Hills, attira ogni anno fiumi di gitanti pronti a immortalare con macchine fotografiche e telefonini i volti giganteschi – alti diciotto metri – incisi nella roccia dei presidenti George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt, e Abraham Lincoln. Il cosiddetto sentiero presidenziale, adornato con le bandiere di ogni Stato, accompagna gli avventori al punto perfetto da cui ammirare i quattro faccioni diventati oramai familiari nell’immaginario collettivo. L’opera, completata nel 1941, prese forma dopo quattordici anni di fatica e sudore di quattrocento operai. A firmarla, lo scultore Gutzon Borglum, un suprematista bianco che aveva lavorato anche con il Ku Klux Klan.
Per il mondo conservatore si tratta di un santuario della democrazia, un simbolo dell’ingegno dell’uomo che domina la natura; per i nativi, null’altro che una profanazione dei monti sacri e una beffa visto che ognuno dei presidenti a suo modo è stato coinvolto nell’oppressione perpetrata dall’Uomo Bianco. Impossibile per i nativi dimenticare l’affronto che l’ex presidente Donald Trump osò nel 2020 quando la sua amministrazione organizzò in pompa magna una celebrazione della Festa dell’indipendenza proprio qui, ai piedi del Monte Rushmore. Decine di Lakota protestarono e furono arrestati dalle forze dell’ordine.
L’attuale inquilino della Casa Bianca, Joe Biden, sembra avere invertito la rotta con la nomina agli Interni della prima ministra nativa americana della storia, Deb Haaland. Un messaggio forte per i nativi americani, accompagnato dallo stanziamento di miliardi di dollari destinati ad alleviare la povertà radicata nelle riserve.
Sono tanti i villaggi a punteggiare l’area che circonda il Mount Rushmore National Memorial. A pochi minuti, Keystone offre boutique di souvenir e piccoli caffè. Le atmosfere sono piacevoli e allegre, ma di sicuro artefatte. I negozi si rivelano spesso trappole per turisti, cui vengono offerte merci ammiccanti: dai cappelli da cowboy alle magliette di Cavallo Pazzo, Toro Seduto, Geronimo e Nuvola Rossa. Sulla stessa linea d’onda è il «parco tematico» di Deadwood, la storica cittadina un tempo ricettacolo di giocatori d’azzardo, fuorilegge e pistoleri di frontiera come Calamity Jane e Wild Bill Hickok. Quel che non manca in queste cittadine, però, sono i ristoranti in cui assaggiare il tipico pane fritto che accompagna la saporita carne di bisonte.
La replica morale al paradosso storico e sociale del Monte Rushmore, svetta non lontano. Si tratta di un monumento ancora più titanico: il Crazy Horse Memorial, iniziato nel 1948. A progettarlo fu lo scultore Korczak Ziolkowski su invito del capo indiano Henry Standing Bear. La maestosità di questa scultura scalpitante nella roccia emoziona anche i più scettici. Il volto fiero e severo è quello di Tasunke Witko, guerriero della banda Oglala Lakota conosciuto come Cavallo Pazzo. Il nume tutelare delle Black Hills, passato alla storia per aver contribuito a sconfiggere Custer e il Settimo Cavalleggeri nella sanguinosa battaglia di Little Bighorn in Montana del 1876, quando Sioux, Cheyenne e Arapaho massacrarono l’intero reggimento. Nato nel 1840, da ragazzo era conosciuto come Capelli Ricci. Secondo gli antichi racconti, a plasmarne l’esistenza fu una visione spirituale improntata all’umiltà. L’indomito Cavallo Pazzo non volle mai sottomettersi al dominio dell’uomo bianco e neppure si piegò al piano del governo americano di relegare i nativi nelle riserve. Morì a trentasette anni, pugnalato a morte alla schiena da un soldato. «Un guerriero il cui nome avrebbe fatto tremare la Prateria per trent’anni e la coscienza di tutta l’America bianca per sempre», così lo raccontava l’indimenticato giornalista Vittorio Zucconi, nel suo magnifico Gli spiriti non dimenticano (Mondadori, 1999).
Il Crazy Horse Memorial è in fieri e i tempi di realizzazione dipendono interamente dalla costante raccolta di fondi privati. Una volta completata, l’opera sarà alta 171 metri e lunga 195: quattro volte più grande della Statua della Libertà di New York. Per capire la portata del colosso, basti pensare che le orecchie del cavallo su cui monta il guerriero sono grosse quanto uno scuolabus.
Oltre un milione di persone ogni anno paga il biglietto per arrampicarsi in autobus fino al sito per fotografare il volto altero di Crazy Horse e del suo destriero. Il complesso monumentale include sale espositive e un paio di teatri. Ma anche qui, il cortocircuito turistico è assicurato. Non mancano i negozi – carissimi – di souvenir in cui acquistare prodotti artigianali ma anche tepee e gli immancabili dreamcatcher, le reti acchiappasogni decorate con piume e perline. Tra gli oggetti più venduti ci sono i gioielli d’argento con pietre turchesi, gemme sacre per i nativi, utilizzate sia come ornamenti sia come manufatti cerimoniali.
In questa parte delle Black Hills non sorprendono le esplosioni dinamitarde necessarie per incidere la roccia. Specialmente a giugno e settembre, quando i turisti si godono le Night Blast, le deflagrazioni celebrative. Nonostante il volto scolpito sia di quelli cari alle popolazioni tribali, sono tanti a mal sopportare la violenza dell’uomo perpetrata ai danni della natura. E c’è chi denuncia la più grande delle contraddizioni: Cavallo Pazzo esecrò sempre la gloria, tant’è che aveva limitato l’ornamento del capo a una sola piuma. Addirittura, chiese di essere seppellito senza lapide. Tanta grandiosità, per gli attivisti, sarebbe insomma un insulto alla sua memoria.
Crazy Horse non è l’unico «santino» a proteggere idealmente le Black Hills. Chiunque ami la storia nativa, si spingerà a rendere omaggio a un altro indimenticato condottiero, Red Cloud, ovvero Nuvola Rossa. Le sue spoglie mortali riposano in un cimitero adagiato su un piccolo promontorio nella riserva Lakota. Un luogo molto suggestivo, dominato da un silenzio infinito, interrotto solo dalle folate di vento che accarezzano l’erba. Sulla tomba gli avventori lasciano, come d’uso, piccole offerte votive: bocconi di cibo, perline, monete, pietruzze. Il camposanto fa parte della missione gesuita Holy Rosary a cui era annesso anche un collegio. Uno tra gli oltre quattrocento istituti religiosi nati nell’Ottocento con l’obiettivo dichiarato di annientare la cultura indigena e sradicarla dai piccoli nativi spesso strappati via con la forza dalle loro famiglie. In queste scuole i bambini erano costretti a tagliare i capelli, a buttare gli abiti tradizionali e a rinunciare non solo alla lingua degli avi, ma anche al proprio nome, assumendone uno inglese. A rendere ancora più tragica questa vicenda, sono state le scoperte recenti di fosse comuni in cui venivano seppelliti i ragazzini indiani spesso morti di stenti e abusi nei convitti.
A testimoniare anni di razzismo sistemico e sopraffazioni, resta la riserva di Pine Ridge, stretta tra le Praterie, le Badlands e le Black Hills. È una delle aree più povere d’America. Qui vivono ancora circa ventimila indiani Lakota della banda Oglala. Come Mike Littleboy Sr., un anziano dalla voce gutturale e gli occhi rimpiccioliti dalle rughe. La sua abitazione, sul ciglio della strada che attraversa l’enclave, è modesta come tutte le altre. Le chiamano «mobile home», costruzioni fragili di legno e lamiera, senza fondamenta. Molte sono abbandonate all’incuria. Nei dintorni il cibo è provveduto solo in piccoli «deli», botteghe di sopravvivenza che raccontano il deserto alimentare di queste terre: scatolame, dolciumi, piccoli attrezzi, ma niente frutta e verdura.
Littleboy testimonia con la scritta sul cappello da baseball il suo «Indian pride». Il nome in lingua Lakota è Wakinyan Sna Mani. È un medicine man, uno sciamano. Nel cofano della sua auto c’è una vecchia scatola di legno, contiene la sua Čhaŋnúŋpa, la tradizionale pipa usata nelle cerimonie sacre. Per i Lakota rappresenta il radicamento spirituale e identitario nella fede degli avi. «È importante praticare le nostre usanze, tramandare alle nuove generazioni il modo in cui preghiamo, la nostra percezione del sacro», dice Littleboy, che è spesso chiamato a officiare i riti ancestrali non solo tra i fratelli Lakota ma anche presso altre tribù. Prima di diventare sciamano è dovuto andare nel cuore delle Colline, da solo, ad aspettare la sua «visione», come fece Cavallo Pazzo. Per i nativi è un rito di passaggio esistenziale. «La ricerca è durata quattro giorni e mezzo. Quando sono tornato, la mia vita era completamente diversa». Oggi racconta di vivere seguendo le istruzioni che gli ha impartito la voce del Grande Spirito.
Il cruccio più doloroso è per lui l’inesorabile scomparsa dell’antico idioma. Tentare di salvarlo è vitale. «È per questo che insegno ai giovani a pregare nella nostra lingua». Littleboy è un instancabile combattente per la causa. «In questi anni ne ho viste di tutti i colori. Ho parlato ovunque a nome del popolo Lakota: scuole, università, tribunali federali». Il governo, denuncia, continua a voltare le spalle. «Viviamo in condizioni terribili. I nostri figli, i nostri anziani vengono esclusi. È vergognoso perché la nostra gente verrà lasciata indietro». Ancora una volta. «È per questo che la lotta non è finita, dobbiamo continuare a combattere per proteggere la terra sacra e la sua gente». Nelle vene di Mike Littleboy scorre il sangue di Cavallo Pazzo, a cui è imparentato per via materna. «L’anima di Tasunke Witko è ancora qui, a custodire le Black Hills e i Lakota».