Pubblicazioni – La nuova uscita nella collana «le Voci» del Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana è dedicata al fieno
Talune voci tratte dal benemerito «Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana», veri e propri saggi di cultura del passato collettivo locale, assumono da qualche anno la forma di un volume autonomo, componendo per stazioni tematiche una sorta di puntuale enciclopedia del tempo che fu, senz’altro utile per farsi un’idea di come si vivesse da queste parti fin verso la metà del secolo scorso.
Ora viene pubblicato Fieno, curato da Dafne Genasci e con un’appendice Falce e falciola scritta da Michele Moretti. Certo fieno è parola, come altre della collana, che si potrebbe dire pregna della sua storia, piena di connotazioni anche simboliche. E scriverne è come aprire un mondo pieno di cose, di pratiche e di attribuzioni simboliche. E di curiosità: a partire da un esordio di stranezza suprema, dove il lettore apprende che il fieno si chiama nei vari dialetti della regione perlopiù fén o fégn, ma che a Isone l’esito è il sorprendente fía, «un mucchio di fía» in pratica.
Certo una materia del genere, che riguarda l’alimentazione del bestiame e quindi anche, indirettamente e giù giù per la filiera, la produzione di formaggio e latticini, conviene prenderla molto alla larga. Per dare un’idea, converrà dire che non bastava portare le mucche sui prati perché mangiassero l’erba («man mano che la neve si scioglieva e l’erba cresceva, si portava il bestiame a pascolare dapprima sui monti maggenghi, poi sugli alpeggi»): bisognava assicurare sussistenza di riserva, tagliando, raggruppando, trasportando, immagazzinando il prodotto, secondo consuetudini che ne assicurassero il consumo anche nei periodi meno favorevoli. La «fabbrica» ha manifestazioni di varia natura e interesse: la frequenza dei tagli, due, tre, quattro volte a stagione (c’è chi si azzarda a contarne cinque, in talune masserie del Luganese); i mezzi di trasporto (una delle attività più spettacolari della pastorizia dell’epoca, ne sono testimoni parecchie fotografie nel volumetto); gli usi alternativi, come giaciglio, come imbottitura, puntando sul carattere assorbente dell’insieme.
La pratica ha anche sue implicazioni sociali: a tagliare il fieno sono chiamati anche fienaioli d’oltre confine, bergamaschi, bresciani, valtellinesi. E una divisione del lavoro era basata sui generi: «La falciatura era generalmente compito degli uomini, mentre donne e bambini si occupavano delle operazioni successive di spargimento e rastrellatura». Curiosa, tra l’altro, la pratica dell’accesso al fieno fuori giurisdizione, il fieno selvatico falciato «sui terreni patriziali, poco fertili» ma soprattutto appartenenti alla comunità nel suo insieme, collettivi: accaparrarseli prevedeva raggiungerli di buon mattino, e, nel caso altri avessero avuto la stessa idea, sottoporsi al rito del sorteggio e affidarsi alla fortuna.
Infine, l’attività della fienagione è anche colma di valori, di credenze e di simboli. L’immagine dell’accumulare il fieno è metafora per l’arricchimento e il successo negli affari; avere il fieno nella testa vuol dire avere poco senno; capitava che i giovani del villaggio facessero i bulli con le ragazze caricandosi al loro cospetto di trasporti sempre più gravosi. E poi c’è una leggenda molto bella che narra di tre donne che cercando di rubare del fieno cadono nel fiume e «da allora, di notte, in quel punto del fiume si vedono tre lumicini che si rincorrono». E ancora, al fieno sono legate storie di spiriti, folletti, donne senza testa che vagano per le contrade. Simbologia non certo secondaria sarà quella legata al credo religioso: i divieti della falciatura nei giorni festivi, le benedizioni del fieno, il fieno tagliato per i frati e addirittura per i cammelli dei re Magi.