Nel dicembre scorso, in Italia, il numero degli occupati raggiungeva la cifra record di 23,6 milioni, che non si toccava dal 1977, con una disoccupazione scesa al 7,4 per cento. Intanto però la Caritas annunciava che 5 milioni e 571 mila persone vivevano in stato di povertà assoluta; tre lustri fa erano 1,8 milioni. Rappresentano il 9,4 per cento della popolazione, oltre il triplo di quelli del 2008. Eppure nelle imprese si contano 316 mila posti vacanti: allargandosi al terzo settore e ai servizi il numero è destinato a crescere a dismisura. Una falla che comporta mancati introiti per 28 miliardi, l’1,5 di un Prodotto interno lordo (Pil) che soprattutto nel 2024 è all’affannata ricerca di ulteriori redditi. La ristorazione appare il distretto maggiormente colpito: tra camerieri, baristi e cuochi servirebbero altre 151’550 figure professionali e la crescita esponenziale del turismo rende questi numeri già superati. Una difficoltà di reclutamento forse figlia di orari troppo dilatati e di paghe troppo contenute più che di scarsa voglia dei ragazzi.
Non c’è contraddizione nell’aumento sia dell’occupazione sia della povertà. In Italia non manca il lavoro, bensì spesso una retribuzione adeguata. I 1200 euro (1120 franchi circa), che costituiscono ancora la paga media, non consentono di sopravvivere, in special modo nelle grandi città. Come sanno il milione e mezzo di lavoratori rientranti fra gl’indigenti costretti a ricorrere all’assistenza pubblica e privata, dal cibo agli indumenti. Paradossalmente le fasce più deboli hanno subito un rincaro dei prezzi, 17,9 per cento, superiore a quello riservato alle fasce più agiate, 9,9 per cento. Significa che oltre due milioni di famiglie – con 1,2 milioni di minori – non arrivano a fine mese, il più delle volte nemmeno alla terza settimana, che in passato veniva considerato il confine da non oltrepassare. Le cause sono molteplici: la principale è l’inflazione, mai così alta dal 1975 e il cui annunciato calo finora non si è riflettuto sul carrello della spesa. Le altre cause sono strutturali, quindi di complicata soluzione: formazione professionale assai insufficiente; allargamento della forbice tra lavoro e stipendi; crescita delle diseguaglianze, che si traduce nella necessità per molti di accettare paghe molto ridotte.
In più è avvenuta l’abolizione del «Reddito di cittadinanza» (RdC) con la transizione verso le nuove misure di «Supporto alla formazione e al lavoro» (Sfl) e dell’«Assegno di inclusione» (Adi). Sono così finite allo scoperto alcune specifiche tipologie di poveri: le stime disponibili indicano in circa il 33 per cento i nuclei già beneficiari di RdC che non avranno diritto all’Adi. Tradotto: 400 mila famiglie su 1,2 milioni. La conseguenza più vistosa è il calo delle nascite che così tanto preoccupa in proiezione futura. Una denatalità della quale a parole tutti si dolgono, nella pratica però si continua a far finta di niente. Lo si è visto anche nell’ultima rettifica del Piano nazionale di ripresa e resilienza, cioè i 224 miliardi forniti dall’Europa: la costruzione degli asili nidi, di conseguenza dei posti disponibili, si è dimezzata. L’ennesimo sgarbo in un Paese che non concede alcun sostegno alle donne desiderose di mettere al mondo un figlio. Nell’annuale rapporto Censis viene previsto che nel 2040 soltanto una coppia su quattro avrà un figlio con ulteriore calo demografico in un Paese che si vede in declino (8 italiani su 10), impaurito da clima, immigrati, povertà, guerra. Il quadro non risponde alla realtà quotidianamente sotto gli occhi di tutti, però spiega la continua fuga dei giovani: negli ultimi dieci anni è stato registrato un aumento del 36,7 per cento, quasi un milione 600mila. Nel 2022 sono espatriati 36’125 persone fra i 18 e i 34 anni.
Negli ultimi mesi la procura di Milano ha costretto due conosciutissime società di vigilanza ad alzare il livello dei compensi: malgrado il nutritissimo carnet d’impegni pagavano i loro addetti 5 euro e mezzo lordi l’ora. Lontanissimi da quei 9 euro soglia del salario minimo richiesto dalla sinistra e avversato dal Governo. Le differenze dividono già uomini e donne – 26’227 euro lordi l’anno ai primi, 18’035 alle seconde – nord e sud – 26’993 euro lordi contro 16’959 – per una media di 22’839 euro, che colloca l’Italia all’ultimo posto dell’Eurozona nella crescita dei salari medi reali dal 1990 al 2020. Prima, cioè, che il Covid accentuasse i problemi. In tale quadro colpiti specialmente gli stranieri: costituiscono l’8 per cento della popolazione, ma tra gli under 18 un povero su 5 è straniero e di origine straniera sono il 30 per cento dei poveri e l’81 per cento di quanti non hanno un impiego stabile. Il settore più in ebollizione è quello sanitario. Medici e infermieri lamentano paghe basse, inferiori di circa 3700 euro mensili alla media europea. Lo stipendio di un camice bianco è 2500 euro lordi, 4000 da primario, mentre gl’infermieri si attestano sui 1600. Ecco spiegata l’emigrazione in Svizzera di medici e soprattutto infermieri: i medici guadagnano sui 15 mila euro, gl’infermieri 4 mila, in taluni casi arrivano a 6 mila. Ma la concorrenza si è allargata: a Dubai garantiscono 20 mila euro per i medici, 8 mila per gl’infermieri. Ultimamente si è aggiunta anche la Norvegia: agli infermieri disposti a trasferirsi vengono garantiti 3700 euro, l’alloggio e un discreto numero di voli aerei per tornare a casa.
La risposta del Governo Meloni è consistita nell’annunciare un taglio alle future pensioni dei medici. Le proteste inviperite dei diretti interessati, dei sindacati e dell’opposizione hanno prodotto una clamorosa marcia indietro. Di converso è cominciata pure la ricerca dei fondi per aumentare i guadagni delle due categorie. Finora l’unica proposta ha riguardato un contributo straordinario, fra i 30 e i 90 euro a seconda degli stipendi, da richiedere agli 80 mila frontalieri con la Svizzera. Che naturalmente non ne vogliono sapere e minacciano di trasferire la residenza in un comune entro i 20 chilometri dal confine per accedere alla più favorevole tassazione elvetica. A muoversi in un’altra dimensione sono i quaranta miliardari italiani più ricchi, da Ferrero ad Armani, dagli eredi Del Vecchio agli eredi Berlusconi, da Pessina (presidente di Walgreens Boots Alliance) ad Elkann, da Massimiliana Landini Aleotti, proprietaria della Menarini, a Piero Ferrari (che detiene il 10% della casa di Maranello) da Garavoglia, patron di Campari, a Stevanato primo produttore mondiale di cartucce mediche. Nonostante Covid e inflazione posseggono l’equivalente della ricchezza del 30% degli italiani più poveri (18 milioni di persone).
Infermiera dell’ospedale di Bergamo in prima linea durante la pandemia. Nonostante la dedizione e gli sforzi immani degli ultimi anni, con i suoi 1600 euro lordi mensili quella degli infermieri rimane una categoria sottopagata in Italia. (Keystone)
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