Coraggiose, intraprendenti e solidali

by Claudia

Storia di genere – Il saggio Women’s voices scardina l’immagine della donna «bestia a due zampe» tratteggiata dai viaggiatoriche nel Settecento percorsero lo spazio geografico alpino

«Andiamo per esempio nella Svizzera italiana. Entriamo nelle case, facciamo conoscenza della donna di campagna e ci lanceremo a correre lontano, colte da un senso di soffocamento. Quella donna ci sembrerà valere meno dell’intontito asinello montanaro delle nostre Ande: una specie di bracciante con titolo di moglie, di nutrice con titolo di madre, serva con titolo di donna». Così descriveva le contadine ticinesi di inizio Novecento Alfonsina Storni, autrice di spicco della letteratura latinoamericana, nata a Sala Capriasca nel 1892 («Le elette del Signore» in Cronache da Buenos Aires). Bracciante, nutrice, serva dunque. Piegata al volere dell’altro. Passiva. Immobile…

Ma quest’immagine è riduttiva, non rende giustizia alle donne nell’arco alpino tra il Seicento e il primo Novecento. È quanto suggerisce Women’s voices, Voci di donne (lo si può trovare anche in PDF su www.alphil.com), una raccolta di saggi di recente pubblicazione che mette in luce l’esistenza di donne che prendevano iniziative, costruivano reti di solidarietà, difendevano il proprio onore, ideavano strategie intelligenti nella gestione di beni e rapporti sociali. Spesso in assenza della controparte maschile.

«Assenza e mobilità sono due concetti strettamente correlati che sembrano proporsi con maggior insistenza proprio nelle vallate alpine e prealpine dove l’assenza poteva riguardare fino ai tre quarti della popolazione adulta maschile», affermano le curatrici del saggio, le storiche Stefania Bianchi e Miriam Nicoli. «Sondando i documenti si incontrano anche donne che seguono i mariti nelle mete di adozione. Che condividono una progettualità incrinante la suffragata dicotomia che vede in quest’economia dell’assenza, l’uomo, lontano, produttore di rendite monetarie e la donna, a casa, fornitrice di servizi. Le ragioni e le modalità delle partenze femminili vanno cercate in un insieme di concomitanze: il successo professionale del compagno, tale da garantire una certa qualità di vita cittadina, la distanza fra luoghi d’origine e meta che determina spesso anche la durata dell’assenza, il contesto socioculturale cui si approda fatto di abitudini, lingua e religione, e naturalmente la personalità, l’indole che inducono alcune giovani ad afferrare nuove opportunità, altre a preferire la monotona ma sicura quotidianità di villaggio». Allo stato attuale degli studi – sottolineano le nostre interlocutrici – chi parte rappresenta una modesta minoranza, tuttavia di grande valenza perché scardina l’immagine di immobilismo femminile spesso collegata all’idea di passività. Considerando comunque che la maggioranza resta in patria, gli sguardi sul mondo delle donne presenti nel volume, «ben lontani dalla consunta similitudine della bestia a due zampe traghettata dai viaggiatori del Settecento», mostrano altre caleidoscopiche realtà.

Come detto siamo di fronte a donne che, a diverso titolo, secondo distinti ceti sociali, appartenenza religiosa, contingenze della vita quotidiana, sapevano prendere iniziative, costruire reti di solidarietà, difendere il proprio onore, mettere in atto strategie nella gestione dei beni, della famiglia, delle relazioni con la comunità. E le fonti studiate di ambito pubblico e privato (diari, procure, rendiconti contabili, atti giudiziari, lettere, registri di istituzioni) confermano la vivacità dello spazio geografico alpino e, come conclude Anne Montenach nella prefazione al volume, la posizione centrale delle Alpi come osservatorio fertile per la storia delle donne e del genere, tale da incoraggiare ulteriori esplorazioni e confronti.

Ma quale immagine offre Women’s voices delle donne della Svizzera italiana? Le storiche sottolineano che sono stati studiati due aspetti complementari: la sfera privata e la sfera pubblica. Nei documenti ufficiali, riferisce Stefania Bianchi, si constata che le donne citate negli atti giudiziari «ticinesi» rappresentano soprattutto l’eterogeneità della povertà, mentre quelle che figurano nei rogiti dei notai appartengono perlopiù a famiglie dell’aristocrazia dell’emigrazione. Dal giudice compaiono «le sfortunate», vittime di raggiri o del giudizio morale della società. Sotto accusa sono la strega, l’adultera, l’infanticida, la ladruncola ma soprattutto le presunte donne di facili costumi, vittime di molestie e future madri di figli illegittimi. Condizioni geografiche di marginalità e solitudine sembrano favorire le relazioni illecite e il perpetrare dei soprusi, consumati in luoghi periferici e isolati.

Dai notai, continua l’intervistata, si incontrano le signore della borghesia artigiana e mercantile. In qualità di procuratrici vengono abilitate ad agire per comprare, vendere, affittare, riscuotere rendite in patria e all’estero. Sono il fil rouge del plurilocalismo cosicché, ad esempio, la procura del marito da Vienna consente alla moglie a casa di nominare, a sua volta, un procuratore agente per famiglia a Roma. Si consideri infatti che queste procure partono da molte città d’Italia, altre da Vienna e da Praga, ma anche da Liegi, Lipsia, Magonza, Dresda, Danimarca, Francia e Inghilterra, da Polonia e Ungheria, Madrid e Barcellona. Partecipi delle strategie migratorie, le donne dimostrano consapevolezza e saperi: dimestichezza nel gestire gli immobili (terre, mulini e persino cave), i capitali (crediti, obbligazioni, censi), le rimesse che arrivano dall’estero (ducatoni, talleri, reali, genovine ecc.), e di riflesso una padronanza delle competenze basilari per leggere, scrivere, far di conto. E in questo mondo al femminile alcune mostrano intraprendenza, spirito di avventura e doti manageriali.

«La possibilità di studiare la corrispondenza di tre generazioni di donne dell’élite di un casato alpino aperto sull’Europa come quello degli a Marca di Mesocco – spiega dal canto suo Miriam Nicoli – ha permesso di illustrare una serie di azioni femminili che vanno in parte a confermare quelle già individuate negli studi incentrati su donne di casati nobiliari urbani: dall’opera di supplenza dei mariti assenti all’educazione di figli e figlie, da orientare verso carriere appropriate e suscettibili di ricadute positive sul casato; dalla gestione dei rapporti esterni della casa alla regolamentazione dei suoi non semplici equilibri interni e alla tutela della sua coesione. All’interno del rispettivo network le donne hanno saputo assumere ruoli multipli, mostrando capacità di variare il registro comunicativo secondo i bisogni e le aspettative, sempre segnate da una disparità di genere».

Le dinamiche di potere – dice l’esperta – variano ed evolvono nel tempo con il mutamento della posizione della donna in seno al casato, lasciando emergere spazi d’azione e competenze o confermando situazioni di fragilità. «Dalle analisi delle traiettorie di vita delle donne dell’élite grigionese del tempo, penso ai miei lavori sui von Salis, emerge un soggetto femminile in constate relazione: un sé relazionale orientato verso aspetti e saperi concreti da mettere al servizio di famiglie numerose che richiedono costante attenzione; un sé relazionale capace di costruire spazi di potere e sostegno informali. Anche nel microcosmo di una valle alpina appare quella costellazione di poteri disuguali sulla quale già insisteva da un punto di vista teorico la storica americana Joan Scott, e sulla quale è importante soffermarsi proprio attraverso studi sui legami femminili, ancora poco indagati per quel che riguarda le aree alpine, ma sui quali quest’opera collettanea si sofferma in modo trasversale».

Ma perché è così importante studiare la storia con un’attenzione al genere? La storia di genere – dicono le intervistate – si sviluppa negli anni Ottanta del Novecento come prolungamento ed espressione della storia delle donne, campo d’indagine emerso già alla fine degli anni Sessanta quando nuove generazioni di storiche, influenzate dai movimenti femministi, denunciarono la parzialità della narrazione del passato, mettendone in risalto i meccanismi di rimozione del femminile (prima la storia con la s maiuscola era quella di re, battaglie, di soli uomini). «A mano a mano che emergevano le svariate forme della presenza delle donne nelle società passate, la ricerca ha affinato il proprio bagaglio metodologico e analitico allo scopo di meglio rendere la complessità delle dinamiche sociali. Patriarcato e differenza sessuale biologica sono infatti solo due delle variabili operanti nei rapporti di potere che condizionano i vissuti. La storia di genere ampia la riflessione inglobando lo studio dei significati attribuiti alla differenza sessuale nel corso del tempo con lo scopo di svelarne le strutture artificiose e i costrutti culturali binari derivanti dalla dicotomia gerarchica maschile/femminile, quali pubblico/privato, ragione/emozione, attivo/passivo».

La storia di genere dunque ha come scopo quello di studiare i significati attribuiti dalle società passate all’essere donna e all’essere uomo e si interroga su come i modelli di mascolinità e femminilità si differenzino anche a seconda di altre variabili come ad esempio il colore della pelle, il ceto sociale, l’età, l’orientamento sessuale, l’accesso al mercato del lavoro ecc. Proprio per questo Women’s voices discute tali dinamiche intersezionali lasciando ampio spazio a profili femminili di generazioni, confessioni e appartenenze sociali diverse, proponendo una riflessione fresca sui molteplici ruoli e sui margini d’azione delle donne, nonché sulle dinamiche uomo-donna nella loro complessità in un periodo storico compreso tra il Seicento e il primo Novecento.

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