Attraverso la penisola arabica, dal Golfo arabico-persico al Mar Rosso, mentre la tensione cresce in tutta l’area: i ripetuti attacchi degli Huti contro le navi di diversi Paesi, i raid di risposta degli americani con la partecipazione di alleati, i lanci missilistici con cui l’Iran colpisce Pakistan, Iraq, Siria. L’escalation è più che una minaccia, è già una realtà quotidiana. La mia prima tappa è il Qatar, che svolge un ruolo chiave nei negoziati con Hamas per liberare gli ostaggi, e non solo. Doha è uno dei miracoli del Golfo arabico-persico. Ancora pochi anni fa l’unico grattacielo che si vedeva era quello dell’Hotel Sheraton. Oggi è scomparso, invisibile e minuscolo, nascosto da una selva di nuovissimi grattacieli (alcuni molto belli) che creano una skyline da fare invidia a Manhattan. Sul modello di Dubai, ma con una vista mare ben più spettacolare. Miracolo recente, boom ancora fresco e giovane.
L’Islam qui è più visibile che a Dubai, perché di donne completamente velate se ne vedono tante. Però è un Islam che non condiziona chi viene da fuori, convive con altri costumi. Sono tanti quelli che vengono da fuori. I veri qatarioti sono solo 350’000 cioè appena il 10 per cento della popolazione. La manodopera viene importata a maggioranza da altri Paesi musulmani o con grosse minoranze islamiche: India, Pakistan, Bangladesh, Egitto. È un miracolo recente: molti che oggi hanno studiato all’università (e magari all’estero) hanno genitori semianalfabeti, nonni che non avevano la luce elettrica in casa. L’economia antica – prima della scoperta del petrolio e soprattutto del gas naturale di cui oggi il Qatar è uno dei massimi produttori mondiali – è ben illustrata nel Museo nazionale: si fondava su un’alternanza stagionale fra il mestiere di raccoglitori di ostriche e perle, e la pastorizia nei mesi invernali. Oggi Doha oltre alla ricchezza gasifera sfida Dubai nel ruolo di hub, piattaforma logistica e finanziaria. La compagnia aerea Qatar Airlines cerca di competere con Emirates per offrire collegamenti globali fra tutti i Continenti. Si candida anche ad attirare flussi turistici, con gite nel deserto e crociere nel Golfo. Attira eventi sportivi, dai Mondiali di calcio alla Formula Uno, agli investimenti nei musei. La versione soft dell’Islam è consentita dal fatto che qui il clero non ha mai avuto il ruolo politico tipico di altri Paesi come Arabia e Iran. Gli imam, reclutati all’estero, strapagati, obbediscono alle autorità locali.
Però la politica estera del Qatar è un’altra cosa: i vicini lo hanno spesso accusato di favorire forze jihadiste, tra l’altro con l’informazione della sua rete televisiva Al Jazeera. La monarchia di Doha si giustifica con i vincoli della geografia: questa penisola si affaccia sul Golfo dirimpetto all’Iran, con il quale condivide lo stesso giacimento gasifero (anche se Teheran riesce a sfruttarlo solo in minima parte, per arretratezza tecnologica legata in parte alle sanzioni). Il Qatar si considera obbligato a scendere a patti con un vicino così ingombrante e potente. Al tempo stesso questa penisola ospita la più grande base militare americana di tutto il Medio Oriente, una risorsa essenziale alle dirette dipendenze di CentCom, abbreviazione del Central Command situato a Tampa in Florida. In Europa il Qatar ha fatto notizia per i Mondiali di calcio e gli abusi contro i diritti dei lavoratori in quei cantieri; per il Qatargate che un anno fa ha coinvolto diversi europarlamentari accusati di avere incassato tangenti; per la nostra fame di gas naturale dopo le sanzioni contro Putin; più di recente per il suo ruolo come quartier generale dei dirigenti politici di Hamas (alloggiati in hotel di lusso). L’ultima parte ha origini più antiche: la presenza di Hamas a Doha fu conosciuta, tollerata e perfino incoraggiata dall’America e da Israele che avevano bisogno di un luogo neutro per parlare con questa organizzazione, per quanto terroristica e colpita da sanzioni. I flussi di finanziamenti miliardari dal Qatar a Gaza (cioè soprattutto ad Hamas) furono accettati o addirittura incentivati da Barack Obama e Benjamin Netanyahu più di dieci anni fa. Durante l’Amministrazione Trump fu sempre a Doha che s’incontrarono emissari americani e talebani per negoziare le condizioni del ritiro Usa-Nato dall’Afghanistan. Se c’è un luogo dove il diavolo e l’acqua santa possono incontrarsi su terreno neutro, è questo. Ma non si ha certo l’impressione che Doha si una luogo pericoloso o inquietante o torbido. Al contrario: ordine, pulizia, benessere, efficienza, sicurezza, disciplina. In questo senso un ambasciatore occidentale mi descrive la vocazione del Qatar ad essere una sorta di Svizzera del Medio Oriente. Qui tutti hanno accesso, tutti hanno spazio, anche le forze più estreme e radicali: purché non facciano danni su questo territorio. Hamas può seminare il terrore altrove, ma se vuole incassare puntualmente i suoi miliardi da Doha deve trattarla come una zona franca, dove non si azzarda neppure a parcheggiare in sosta vietata.
Dicevo di Al Jazeera. La linea editoriale di questa rete televisiva – influente in tutto il mondo islamico, e anche oltre – fu una delle cause scatenanti della più grave crisi internazionale subita da questo Paese nella storia recente. Nel 2017 un’ampia coalizione guidata dall’Arabia saudita, con dentro Emirati, Bahrain, Egitto e Yemen, ruppe le relazioni diplomatiche con Doha e varò un embargo. L’accusa rivolta alla monarchia locale fu di fiancheggiare tutte le forze fondamentaliste ed eversive della grande famiglia dei Fratelli musulmani (di cui fa parte anche Hamas). Fu un isolamento pesante, con gravi danni all’economia locale, fece temere ai qatarioti perfino una possibile invasione militare saudita. In loro aiuto la Turchia di Erdogan mandò un contingente di soldati. Oggi quella crisi, durata fino al 2021, occupa un’intera galleria del Museo nazionale, a riprova di quanto abbia segnato il regno. Il Qatar ha pagato dei prezzi per la sua politica estera «corsara» ma non l’ha modificata e il suo ruolo di Svizzera del Golfo oggi è ingigantito dalla guerra di Gaza. Né è cambiata la linea di Al Jazeera. Malgrado tante critiche e proteste, questa tv continua a dare un’informazione tanto estesa e professionale quanto faziosa. Da Gaza dà spazio quasi esclusivamente alle versioni di Hamas. I giornalisti di Al Jazeera – alcuni dei quali hanno pagato con la vita la pericolosità della propria missione – sono bravissimi e al tempo stesso sono di parte. I tg di Al Jazeera sono un bombardamento continuo di immagini a senso unico: le vittime sono palestinesi, i carnefici israeliani. È informazione di qualità ed è lavaggio del cervello. Gran parte del mondo arabo e islamico non conosce altre versioni dei fatti.
Un gestore del fondo sovrano qatariota che ha investito nei grattacieli di Milano e nella Costa Smeralda m’invita a cena in un lussuoso centro commerciale: fatto esclusivamente di marmo bianco di Carrara, sembra un replica della Galleria Vittorio Emanuele di Milano; all’ingresso ospita una showroom della McLaren. È un luogo frequentato dal ceto medioalto, eppure le donne sono quasi tutte velatissime e in nero, alcune con la versione integrale che lascia scoperta una feritoia solo per gli occhi. Lui e la moglie hanno vissuto e studiato in America, in Europa. Lei è una ricercatrice biogenetica ma veste l’abito tradizionale e il suo capo è coperto. Sono gentilissimi, affabili, parlano un inglese perfetto, abbiamo tante cose in comune: hanno girato il mondo, sono di casa a New York e Londra, vediamo gli stessi film e serie televisive. Per certi aspetti fanno parte del «nostro mondo», per altri sono distanti e irriducibili. Quando a lui chiedo un giudizio sulla politica estera americana ed europea in Medio Oriente, non esita a liquidarla così: «Volatile, ondivaga, inaffidabile».