Israele: il ritorno della Qabbālāh attira anche le rock star

by Claudia

Reportage - A Tzfat qualsiasi certezza è volatile come l’aria delle vicine montagne, aria considerata tra le più pure al mondo, tanto da essere meta di ristoro per occidentali stressati

Medio Oriente, Israele e territori palestinesi non sono solo sinonimo di guerra, come putroppo la cronaca degli ultimi mesi sembra voler dimostrare. C’è anche una lunga tradizione di pace e di ricerca interiore, sia nel mondo musulmano che in quello ebraico, che qui approfondiamo concentrandoci sul fenomeno della Qabbālāh.

Un devoto ha appena acceso una candela su un grappolo di tombe blu mentre le prime ombre della sera, «anime che ballano» le chiamano qui, si allungano sul vecchio cimitero lungo la collina spegnendo le montagne dorate che digradano verso il lago di Tiberiade. Sono le tombe dei cabalisti più famosi, perlomeno quelle visibili perché, secondo la tradizione, se improvvisamente senti la gamba appesantirsi è perché stai calpestando una tomba nascosta.

Lungo la strada un giovane ebreo ortodosso insensibile alla purezza della mistica vende improbabili corredi rabbinici accompagnato dalle onde sonore di un implacabile rap che sale verso il cielo e le antiche sinagoghe abbarbicate alla collina. Gusci di pietra che racchiudono tutta la sapienza esoterica di Tzfat la Santa, l’antica Safed alle pendici del monte Kenaan nell’alta Galilea, dove ancora cresce rigogliosa la foresta di simboli, lettere e numeri della Qabbālāh, la mistica ebraica che da molti secoli si interroga intorno a Dio e all’uomo, e ai segreti nascosti dall’inizio del mondo.

Lo ripeteva spesso ai suoi allievi anche il Maestro dei Maestri Yizhaq Luria Askenazi, il più importante mistico ebreo del Cinquecento, che la verità è molteplice, impossibile da imprigionare in un libro e così lui, il più geniale interprete della Qabbālāh, soprannominato per la sua grandezza «Ari il Leone», venne sepolto in una tomba del colore del Paradiso a soli 38 anni senza avere scritto nemmeno un rigo. Con un’eredità simile non c’è da sorprendersi che a Tzfat qualsiasi certezza sia particolarmente volatile come l’aria delle vicine montagne. Non lontano dal cimitero, le vibrazioni positive del piccolo edificio del mikveh, il bagno rituale usato anche da Luria, sono un’irresistibile calamita per mistici di tutto il mondo, Dalai Lama compreso; e i rabbini locali sussurrano sdegnati che, nonostante i rigorosi divieti, persino qualche femmina l’abbia contaminato nel cuore della notte.

C’è anche chi pensa alle cose pratiche, come il custode della tomba del rabbi celibe, Jonathan Ben Uzziel, protettore dei single, che mi propone l’affitto di un cavallo per andare a spasso tra gli ulivi delle vicine colline, e chi, invece, riflette sulla relatività dei punti di vista, come nella storia del rabbino e delle due pecore, in cui si racconta che, un giorno, un uomo andò a trovare il religioso per lamentarsi che la sua vita era un inferno, tra bambini, famiglia e lavoro. Il rabbi meditò un po’ poi gli consigliò di provare a mettere una pecora in casa. Dopo qualche giorno, però, l’uomo tornò ancora più disperato dicendo «va sempre peggio». Allora il rabbi gli consigliò di mettere una seconda pecora, e quando l’uomo tornò ancora a lamentarsi gli suggerì di provare a togliere entrambe le pecore. Dopo qualche giorno l’uomo riapparve raggiante, «avevi ragione maestro, adesso è un paradiso, anche l’aria è molto meno puzzolente!».

Sono molte le strade che portano alla verità, come quelle che raggiungono Gerusalemme, ma a Tzfat bisogna volerci venire perché della Città Santa non ha certamente la scenografica spettacolarità o i monumenti. Forse è più pura grazie alla sua avirah, l’aria intesa anche in senso spirituale perché, secondo i cabalisti, ognuna delle quattro città sante dell’ebraismo è associata a uno dei quattro elementi della Creazione: Gerusalemme ha il fuoco perché è stata distrutta dalle fiamme, oppure per le sue preghiere che salgono come il fuoco verso il cielo; Hebron, la terra della grotta dove sono sepolti i Patriarchi; Tiberiade ha l’acqua del lago; Tzfat invece l’hanno scelta in molti proprio per l’aria, la più pura del mondo.

Tzfat è dunque una piccola Gerusalemme dall’irresistibile seduzione, dove nel corso dei secoli Giuseppe è ritornato dall’Egitto (nella terra di Canaan), ma anche i sefarditi spagnoli espulsi nel 1492 dalla cattolicissima regina Isabella. Molti di loro erano cabalisti in fuga con le loro preziose Tōrāh nascoste sotto le vesti, così già nel 1575 Tzfat diventò una capitale spirituale dell’ebraismo da cui maestri come Joseph Caro, Luria e molti altri irradiavano la propria influenza sulle comunità ebraiche dell’Europa Orientale dando vita al chassidismo, il movimento mistico che ha influenzato non solo la cultura ebraica ma anche l’Europa della Riforma.

A vederla da lontano è difficile pensare che Tzfat racchiuda una sapienza esoterica. Bisogna viverla senza fretta per avvertire l’energia delle sue vecchie pietre che si sprigiona solo lasciandosi alle spalle l’inevitabile suq mistico-turistico della strada principale, inseguendo il suono di silenzi pieni di luce del labirinto di vicoli e piazzette della città vecchia. Un ebreo ortodosso si materializza per un istante con il suo colbacco di pelo di marmotta, forse maledicendo il momento in cui qualcuno ha reso di pubblico dominio un segreto difeso gelosamente per secoli. Poi scompare dietro una piccola porta azzurra, il colore del cielo e del paradiso, da cui filtrano le preghiere di qualche yeshiva, le scuole religiose, confine simbolico con un altro mondo, quello del sapere iniziatico fatto di antiche sinagoghe dove ogni dettaglio ha un significato nascosto, tre archi per Abramo, Isacco e Giacobbe, dieci finestre per i Comandamenti, e armadi polverosi rivelano Tōrāh che sembrano più antiche del mondo.

Arrivano da Samarcanda, dalla Spagna, persino dalla remota Cochìn in India, frammenti di storia perché quello che riporta la parola dell’Altissimo Dio non può mai essere distrutto, come i frammenti di luce della Qabbālāh che svelano le invisibili corrispondenze presenti nella Creazione perché, proprio combinando le lettere, Dio creò il mondo con la sua parola. Per i cabalisti esiliati sulla collina di Tzfat, la Tōrāh non racchiude insegnamenti identici per l’eternità, in ogni parola brillano molti lumi e, interrogando persino le singole lettere e gli spazi vuoti, l’uomo può contribuire a liberare scintille prigioniere nelle parole della Tōrāh ricomponendo il disegno iniziale. Tra quelle luci, i cabalisti hanno cercato di elaborare anche la tragedia dell’espulsione dalla Spagna, leggendo la diaspora del popolo ebraico come un esilio dell’Infinito, Dio, che deve tirarsi indietro come un genitore per permettere la crescita del Finito, l’Uomo.

Per secoli mistici, poeti, profeti, religiosi e asceti sono arrivati quassù in cerca di risposte, e negli ultimi quarant’anni anche molti artisti hanno aperto i loro atelier nelle antiche case che risalgono al tempo in cui a Tzfat ebrei e palestinesi vivevano insieme, prima della guerra del 1948. Oggi arrivano anche sempre più numerose anime inquiete, rockstar comprese, che sperano di ritrovare la pace dello spirito respirando per un paio d’ore l’aria fine delle colline dell’alta Galilea aggirandosi, con un sorriso mistico, tra negozi che cercano di risucchiarli al suono dello shofar, il corno della tradizione, sotto lo sguardo divertito di gruppi di reclute che ciondolano con i loro mitra a tracolla.

«Viviamo in un tempo in cui la Qabbālāh, gelosamente custodita come un segreto per molti secoli, attira milioni di persone, non di meno personalità popolari, ma al contrario di quello che si potrebbe pensare sono loro a ricevere visibilità avvicinandosi alla Qabbālāh» spiega convinto Eyal Riess, direttore per molti anni dell’International Center for Tzfat Kabbalah. «Il mondo cerca una spiritualità sempre più trasversale tra culture e religioni e la Qabbālāh, che in ebraico significa “ricevere” e “paradiso”, favorisce unità e armonia perché è nata con l’uomo, con Adamo, è un fiume sotterraneo che attraversa la storia dell’Umanità e ancora oggi riesce a spiegare il senso delle nostre azioni. La Qabbālāh insegna tecniche per raggiungere la pace, per “ripulirti” cercando un equilibrio tra mondo fisico e spirituale in un processo di conoscenza senza fine in cui focalizzare una cosa piuttosto che un’altra. Noi ebrei stiamo per entrare nel sesto millennio e la Qabbālāh è stata rivelata sette secoli fa in Castiglia, quando Rabbi Moshe de León iniziò a rivelarne i segreti nello Zohar, Il Libro dello Splendore. Questo significa che stiamo per entrare in un’era meravigliosa, l’era dello shabbat perché i cabalisti fanno paragoni tra i sette giorni della Creazione e i sei millenni, e Tzfat sprizza energia da ogni angolo perché da qui la Qabbālāh si è diffusa nei quattro angoli del mondo».

Nel frattempo, unendo un pragmatico senso degli affari all’aria rarefatta del misticismo, mister Riess probabilmente pensa alle potenziali folle di ricchi americani in cerca di pace spirituale: «Noi diamo solo gli strumenti, ognuno poi arriva fino a un certo punto perché la Qabbālāh non è per tutti, è come internet o un libro, ognuno deve avere un’attitudine alla conoscenza altrimenti non può capire perché parliamo di un processo di conoscenza senza fine, è come entrare in un’altra dimensione in cui focalizzare una cosa invece di un’altra. Anche un non ebreo può studiare la Qabbālāh, anche se venendo da una tradizione diversa probabilmente capirà meno, perché dei sette principi di cui si parla nella Tōrāh – i comandamenti che guidano l’umanità – molti sono comuni all’intero genere umano, per esempio non parlare di Dio invano, non uccidere o non rubare».

Una prospettiva di inarrestabile successo globale più che sufficiente a rendere irascibili i custodi della tradizione incorniciati dalle peot, i lunghi boccoli che si fanno crescere i religiosi per non dimenticare che tutte le teste, comprese le loro, hanno un limite. Così aspettano impazienti, annidati tra le ombre delle antiche sinagoghe, l’arrivo del tempo sospeso dello shabbat, il sabato quando tutto si arresta per non cambiare lo stato del mondo, chiusi i negozi, ferme le auto, spenti telefoni e televisori. Parla solo il silenzio in attesa della notte successiva, quando si riprende a cantare fino a tardi, accompagnati dalle candele dell’addio intrecciate di sottili fili di cera, per salutare lo shabbat che se ne va dopo che in cielo sono apparse almeno tre stelle a segnalare che il mondo si rimette in moto.

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