Quella gentile malinconia per le rovine

«Dopo Dracula non c’è stato nulla di portata e vitalità tanto ampia, per il semplice motivo che il genere Gotico, scaturito dall’oscurità dell’inconscio ed espresso da Stoker nella forma più compiuta, è stato usurpato da Freud. Freud espanse e organizzò questo insieme di saperi e, chiamandoli psicoanalisi, conferì a essi una dignità e un prestigio cui mai avrebbero potuto aspirare all’interno di un genere romanzesco orrorifico». Una tesi percorre, insieme ad altre affascinanti visioni, l’ultimo bel libro di Patrick McGrath: l’azzardo secondo il quale le prove letterarie dei vari Bram Stoker, Mary Shelley, Robert Louis Stevenson, Herman Melville, Oscar Wilde e naturalmente Edgar Allan Poe non sarebbero altro che una sorta di grezzo apprendistato della psicoanalisi, per le pratiche di narrazione che vi correvano, per la scelta dei temi («maschere, mostri, doppi, fantasmi, follia, alterazioni mentali, sogni») e anche per l’anticipo del procedere fermamente narrativo dell’avventura freudiana nell’inconscio.

Scrivere di follia di Patrick McGrath, appena uscito in traduzione italiana, è una raccolta di articoli, prefazioni, recensioni di grande originalità dedicati alla follia e al modo di raccontarla. Alcuni filoni percorrono il genere con particolare e felice ostinazione. Tra di essi il libro di McGrath pare tornare spesso per esempio sul tema del doppio: Jekyll e il signor Hyde, Frankenstein e la creatura, Dorian Gray e il suo ritratto; ma anche il commovente e stranissimo, ed eppure autentico, caso di Jennifer Gibbons e della sua gemella June. Furono due pazienti psichiatriche inseparabili; tanto inseparabili che, taciturne con la comunità circostante, parlavano tra loro una lingua curiosa e solidale, marcata da un accento dei Caraibi e da numerosi difetti di pronuncia. Esse erano talmente unite, di fatto una sola persona, che all’uscita dalla clinica e a contatto con il mondo una deciderà di morire in un modo struggente, arrestandosi il battito del cuore.

Per lunghi tratti la lettura di questo libro ci fa credere che McGrath più che lo scrittore avrebbe dovuto fare il critico, o il recensore o il prefatore professionista, abiti nei quali gli succede di stupirci spesso con nuove letture e nuove visioni delle cose. Capita quando si legge del dottor Frankenstein, usurpatore dei poteri del Creatore, ma anche di quelli, supremi, della Donna generatrice di vita. Di simili sgangherati e irrisolti rapporti con il genere femminile c’è abbondanza nell’intero filone letterario: «Di fatto il sesso è onnipresente, nell’immenso romanzo privo di donne» che è Moby Dick: nel letto condiviso all’inizio tra Ishmael e Queequeg alla Locanda dello Sfiatatoio, nell’episodio dei due uomini legati e incollati insieme alla «corda di scimmia», nel salvifico abbraccio finale di Ishmael attorno alla bara del ramponiere, che, particolare non secondario, porta gli stessi tatuaggi della sua pelle. E pure il romanzo di Melville è anche un moderno romanzo di altre pelli, quelle della tolleranza e della fraternità delle razze che animano il ponte del Pequod e la sua ciurma, altrimenti e ostinatamente «in preda a un’ossessione per la bianchezza».

Ogni tanto i grandi scrittori ci colpiscono anche per una loro peculiare capacità di osservare il proprio lavoro, di indagarne motivazioni, strumenti ed esitazioni. In questo libro McGrath ci descrive il travaglio della trasposizione cinematografica di Spider, uno dei suoi romanzi più luminosi (per questo lettore, il migliore), che dà sostanza a uno di quei casi nei quali cercare di indovinare se sia più bello il film o il libro è impresa disperata, tanti sono i pregi delle opere di McGrath da una parte e di David Cronenberg dall’altra. Dice il nostro Patrick: «Il film è un capolavoro: il ritratto chiaro, lento e illuminato di un viaggio nella notte della psiche», cui il pubblico di Cannes riserverà il miglior cerimoniale della casa: l’applauso in piedi, per tanti e tanti minuti. Finita la celebrazione del rituale della follia, scrittore e regista non sanno fare altro che abbracciarsi tra le lacrime: è il trionfo della letteratura, l’apoteosi della cultura, ancora una volta vincente su una natura derelitta e priva di conforto.

Narrare di follia contribuisce forse a contenere gli incubi, dando loro sfogo nell’universo narrativo; certo l’analisi psicologica successiva, le sostanze sempre più psicotrope, il cinema e le avanguardie più estreme delle nuove tecnologie fanno riflettere su quanto quella letteratura e «quell’antico gusto per la gentile malinconia delle rovine» (nell’immagine le rovine del monastero di Eldena, 1825, di D. C. Friedrich) abbiano ancora loro concreti effetti. Siccome parla di vita e di uomini, dei loro segreti e delle loro ossessioni, il genere folle ha una sua propria leggibilità universale, «arrivando» con lo stesso successo a tutti i lettori possibili: da quelli più preparati e sensibili a quelli meno provveduti. Il segreto dei generi letterari sta, per buona fortuna del lettore, in gran parte lì.

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