A Taiwan l’elezione di Lai Ching-te del Partito democratico progressista rischia di infiammare le tensioni con la Cina
«Le elezioni hanno mostrato al mondo l’impegno del popolo taiwanese per la democrazia», ha detto Lai Ching-te, conosciuto anche con il suo nome inglese di William, alla folla festante subito dopo il verdetto del voto di sabato 13 gennaio sull’isola di Taiwan: «Spero che la Cina possa capire». Ma capire cosa? Forse proprio questa distanza che si è creata ormai tra Repubblica di Cina, il nome formale di Taiwan, e la Repubblica popolare cinese, cioè la seconda potenza del mondo guidata dal Partito comunista cinese e da un leader sempre più autoritario, Xi Jinping. A maggio William Lai inaugurerà il suo mandato da presidente, dopo essere stato negli ultimi quattro anni il vicepresidente di Tsai Ing-wen, la leader del Partito progressista democratico, e aver vissuto in prima persona tutti quei cambiamenti che hanno trasformato l’isola e i taiwanesi, la loro identità e il loro desiderio di proteggere ciò che hanno conquistato negli anni: i diritti e la democrazia.
Sessantaquattro anni, William Lai è entrato in politica quasi un trentennio fa. Ma la sua storia, come quella di qualunque taiwanese, è strettamente legata a quella dell’isola. Si tratta di poco meno di ventitré milioni di abitanti che abitano su una superficie di trentaseimila chilometri quadrati, cinquemila in meno della Svizzera. Taiwan è un territorio che la Cina rivendica come proprio, anche se le loro strade si sono divise molti decenni fa, nel 1949, alla fine della Guerra civile cinese, quando le truppe nazionaliste di Chiang Kai-shek che combattevano contro i comunisti di Mao si ritirarono sull’isola, sconfitti. Lo status giuridico di Taiwan è unico: presidenza, Governo e Parlamento rappresentano a pieno la democrazia vibrante che è diventata quella taiwanese, e che è passata attraverso diversi periodi di crisi.
Era il 1996 quando sull’isola di Taiwan si stava svolgendo per la prima volta la campagna elettorale dopo la riforma che aveva introdotto l’elezione diretta del presidente della Repubblica, neanche dieci anni dopo la fine della Legge marziale. Nato in una famiglia povera, di minatori, con il padre morto in un incidente quando lui aveva solo due anni, William Lai era riuscito a diventare medico e a svolgere parte degli studi perfino in America. Aveva trovato lavoro al National Cheng Kung University Hospital di Tainan, nel sud dell’isola, proprio davanti allo stretto che separa Taiwan dalla costa cinese. Ma durante quella campagna elettorale del 1996 la Cina iniziò ad alzare il tiro con le intimidazioni, lanciando una serie di missili attorno all’isola: uno show di forza per mostrare i muscoli a quella che ancora oggi, a Pechino, viene considerata la «provincia ribelle». È allora che William Lai decise di entrare in politica.
«Pechino aveva voluto inviare un messaggio a coloro che sostenevano le riforme democratiche di Taiwan, preferendo candidati più ricettivi alle proprie tendenze autoritarie», ha scritto Lai sul «Wall Street Journal» a luglio, raccontando la sua vita e il senso della sua candidatura a presidente. «Fortunatamente quei candidati persero», e da allora «la nostra democrazia è fiorita, ma la storia trova il modo di ripetersi». Anche in questi giorni da presidente-eletto, Lai ripete di continuo che il suo impegno «è difendere la pace, le nostre conquiste democratiche e lo status quo dello Stretto». «Status quo» è l’espressione chiave per capire Taiwan: pur di annettere l’isola Pechino ha lavorato per anni al suo isolamento diplomatico, e di recente la Repubblica di Nauru, un piccolo Stato insulare dell’Oceania, ha deciso di chiudere la sua ambasciata di Taiwan per aprire quella della Repubblica popolare cinese. Un segnale piccolo ma significativo, visto che a oggi solo dodici stati al mondo riconoscono ufficialmente il Governo di Taipei.
Trattare con Taiwan è quindi tutto un gioco di equilibri, anche linguistici. A luglio dello scorso anno Lai aveva detto a una platea di sostenitori che «quando il presidente di Taiwan potrà entrare alla Casa Bianca, allora l’obiettivo politico che stiamo perseguendo sarà stato raggiunto». All’epoca c’erano state parecchie polemiche su quella frase: vuole dire indipendenza? Riconoscimento formale? Visita di Stato? I funzionari del Dipartimento di Stato avevano telefonato alla rappresentanza diplomatica di Taiwan a Washington per chiedere chiarimenti. Il pericolo, allora, era che la campagna elettorale prendesse una piega piuttosto provocatoria, e che Lai effettivamente stesse promettendo ai suoi elettori una sorta di dichiarazione d’indipendenza. «William Lai rappresenta per Pechino una vera e propria minaccia alla narrazione del Partito comunista cinese», spiega Stefano Pelaggi, docente all’Università La Sapienza esperto di politica taiwanese. «Il neoeletto presidente ha espresso, in passato, una posizione abbastanza netta rispetto alla Cina, all’identità taiwanese e al futuro di Taiwan. Si tratta di opinioni largamente diffuse nella società dell’isola che solitamente vengono omesse per evitare uno scontro politico. Negli ultimi anni, particolarmente nella campagna elettorale, Lai si è posizionato su un approccio legato a un realismo nelle relazioni nello Stretto. Ma per Pechino chiunque non sostenga l’unificazione con la Cina è un nemico». Eppure, secondo un sondaggio del Pew Research Center pubblicato di recente, oltre due terzi dei taiwanesi si considerano ormai taiwanesi, mentre solo il 3 per cento degli intervistati si considera cinese, dunque qualsiasi atto per l’annessione di Taiwan vorrebbe dire uno scontro, anche bellico, un’opzione che Pechino non ha mai nascosto.
«La coercizione di Pechino negli ultimi tre anni è cresciuta di intensità in maniera significativa», dice Pelaggi, «penso che ci sarà un graduale aumento dell’assertività ma non assisteremo a una vera e propria escalation. Il riconoscimento di Nauru all’indomani dei risultati delle elezioni presidenziali è un esempio della strategia di Pechino, una costante azione di coercizione nei confronti di Taiwan». Per gli esperti si tratta soprattutto di una tattica che serve a mostrare all’opinione pubblica interna, quella cinese, che la leadership otterrà quello che vuole. Ma ormai, spiega Pelaggi, «le incursioni nello spazio aereo taiwanese, l’erosione degli alleati diplomatici e la retorica di Pechino non sembrano avere un impatto significativo all’interno della società taiwanese».