Capita a tutti di paragonarsi agli altri. Ci si ritrova a pensare che, per essere più contenti, certe volte basterebbe avere un corpo, un carattere e delle relazioni più «normali». Ma qual è esattamente l’idea che abbiamo della «norma»? Sarah Chaney, storica e ricercatrice al Queen Mary Centre di Londra (i suoi articoli sono stati pubblicati sulla rivista «The Lancet») cerca di rispondere a questa domanda nel suo ultimo libro, intitolato Sono normale? (Bollati Boringhieri).
Tra le pagine racconta che, nel 1945, il «Cleveland Plain Dealer», il principale quotidiano dell’Ohio, indisse il concorso Are you Norma, Typical Woman? («Sei Norma, la donna tipica?»). Le partecipanti dovevano inviare al giornale tutte le loro misure, dall’altezza al peso, passando per busto, fianchi, vita, coscia, caviglia e numero di piede. Lo scopo era quello di trovare la donna più somigliante alla scultura realizzata dal sessuologo Robert L. Dickinson e dallo scultore Abraham Belskie. Norma – questo il nome della statua – aveva anche un compagno, ribattezzato Normman: le due figure incarnavano sia una media statistica sia un ideale. Quasi 4’000 donne parteciparono al concorso, ma nessuna corrispondeva precisamente a Norma, neppure la vincitrice, Martha Skidmore. La scultura non ritraeva una figura reale: il suo corpo, infatti, così come quello del fidanzato, era stato modellato su un campione selezionato di ragazze tra i diciotto e i vent’anni, prive di disabilità, sane e quasi esclusivamente bianche.
Ancora ai giorni nostri, gran parte di ciò che crediamo «normale» si basa su dati provenienti da una piccola porzione dell’umanità: occidentale, istruita, industrializzata e benestante. Il trend della «normalità» è iniziato nel 1800, dice Sarah Chaney ad «Azione». In quel periodo gli astronomi usavano un metodo statistico per calcolare l’errore nelle loro misurazioni e lo raffiguravano con una curva a campana, mettendo al centro la misura considerata corretta. «L’astronomo e statistico belga Adolphe Quetelet pensò di applicare lo stesso criterio alle persone e lo estese a tutte le caratteristiche umane, dall’altezza all’abilità artistica. Nel suo studio sull’argomento, pubblicato nel 1835, sosteneva che l’uomo ideale fosse quello medio. Questo slittamento tra ideale e medio è continuato da allora».
Nel corso del 1800 Francis Galton portò l’idea di normalità all’estremo, promuovendo l’eugenetica, «una pseudoscienza che prometteva di migliorare la razza umana attraverso la riproduzione». All’inizio del 1900 l’eugenetica si era insinuata in gran parte della medicina occidentale e nel 1907, in Indiana, fu approvata la prima legge al mondo che rendeva obbligatoria la sterilizzazione per «criminali, idioti e stupratori» in custodia statale. La regola di punire chi deviava dalla «norma» assunse, come sappiamo, dimensioni abominevoli in Europa, durante il nazismo, culminando con l’olocausto.
Così come l’eugenetica, gli standard di bellezza femminile che continuano ancora oggi hanno radici storiche. «Francis Galton si appostava agli angoli delle strade per misurare di nascosto la bellezza delle donne che passavano, usando degli strumenti di sua invenzione. Tramite questo processo del tutto soggettivo, Galton stabilì che le donne di Londra erano le più belle e quelle di Aberdeen le più “ripugnanti”. Per gli scienziati tardo-vittoriani come Galton, la bellezza delle donne era particolarmente importante per comprendere l’evoluzione umana, seguendo la teoria della selezione sessuale di Charles Darwin».
Sono normale? include anche alcuni questionari che, negli ultimi due secoli, sono stati utilizzati per valutare la salute mentale e i tratti emotivi della popolazione. Quello sulla personalità, stilato dall’Università di Chicago nel 1928, è particolarmente interessante. L’ho compilato rispondendo «sì» a domande come «avete paura di cadere quando vi trovate in posti elevati?», «vi spaventano molte cose?», «fantasticate su eventi improbabili?» e «vi confondete spesso in posti nuovi?». Ho scoperto che le mie risposte rientrano tra quelle considerate «nevrotiche». Secondo gli standard di cent’anni fa, non sarei rientrata nella «norma». D’altra parte, ci ricorda Chaney, «il concetto di “normalità” può creare aspettative irrealistiche, causando disagio e senso di fallimento a livello individuale e una vera e propria discriminazione a livello sociale». E lancia un invito: «La prossima volta che userete questa parola, forse, potreste fermarvi a riflettere con più attenzione su ciò che intendete per davvero».