La seconda tappa del nostro viaggio ci porta in Arabia Saudita alla scoperta degli ambiziosi progetti di Riad
Dopo il Qatar (Dove si incontrano il diavolo e l’acqua santa su «Azione» del 22 gennaio 2024, p. 21) continua il nostro viaggio attraverso la penisola arabica.
Non ci sarà una soluzione durevole alla tragedia israelo-palestinese senza un coinvolgimento diretto dell’Arabia Saudita: è l’unica potenza mediorientale ad avere risorse finanziarie adeguate per ricostruire Gaza, sostenere la creazione di un futuro Stato palestinese, e nella transizione verso quel traguardo «tacitare» con i suoi soldi le tante resistenze e opposizioni. Ma l’Arabia è a sua volta una parte del problema, come dimostra il basso profilo adottato dalla sua diplomazia – e dalle sue forze armate – nelle due crisi del momento: Gaza e Mar Rosso. Se guardiamo a questi sconvolgimenti in un’ottica di lungo periodo, il sospetto è che il mandante di Hamas, di Hezbollah, degli Huthi, abbia come bersaglio finale proprio l’Arabia Saudita. Il mandante è l’Iran, ovviamente. Della teocrazia sciita che governa con ferocia a Teheran sappiamo gli obiettivi dichiarati: cancellare per sempre lo Stato d’Israele, sconfiggere e umiliare il «grande Satana», come l’ayatollah Khomeini definì l’America. Ma c’è un obiettivo meno conclamato eppure perfino più importante per un regime fanaticamente religioso: conquistare i due luoghi sacri dell’Islam, Mecca e Medina. L’invasione dell’Arabia Saudita, o perlomeno della sua regione più importante per 1,6 miliardi di musulmani, è l’unica spiegazione razionale per quell’«arco delle milizie sciite» che l’Iran ha costruito pazientemente negli anni in Libano, Siria, Iraq, Palestina, Yemen. Quell’arco accerchia l’Arabia.
Queste riflessioni mi vengono in mente nel mezzo di un lungo viaggio in Arabia Saudita, dominato da tutt’altre questioni. È un viaggio all’insegna della rivoluzione saudita in ogni campo: leggi, diritti e costumi, economia, turismo. Ogni tanto mi assale una sensazione di déjà vu. Incontrando molti imprenditori stranieri nel loro entusiasmo ritrovo un’atmosfera che vissi vent’anni fa in Cina. All’inizio del millennio, a Pechino e Shanghai, incontravo tanti industriali convinti che in Cina si stava costruendo il futuro. Ora respiro un’eccitazione simile in Arabia Saudita e anche in alcuni suoi vicini del Golfo che le hanno fatto da apripista (Emirati, Qatar). Il paragone tra la Cina e l’Arabia è una forzatura, lo ammetto. La Cina è un colosso da 1,4 miliardi di persone. Ha potuto diventare la fabbrica del pianeta grazie alle dimensioni immense della sua forza lavoro. A questa stazza enorme vanno aggiunti altri ingredienti. Una storia capitalistica molto antica (la Cina meridionale conobbe forme di proto-capitalismo nel nostro tardo Medioevo). La cultura confuciana con la sua etica del lavoro. Il ruolo della diaspora, in particolare i capitalisti taiwanesi che furono i pionieri nell’investire in fabbriche non appena Pechino abbandonò il maoismo.
Nulla di tutto ciò esiste in Arabia. Ha solo 32 milioni di abitanti, di cui un terzo sono immigrati stranieri. Molti sauditi si erano abituati a vivere di rendita sulle entrate petrolifere: rendita sontuosa per i privilegiati, piccola rendita assistenziale per la maggioranza abituata a un Welfare modesto ma onnipresente. In certe mansioni la popolazione immigrata è indispensabile perché i sauditi le rifiutano: in particolare lavori di tipo operaio. La rivoluzione in corso sotto il 38enne principe Mohammed bin Salman (abbreviato in MbS) vuole costringere i giovani a cambiare atteggiamento verso il lavoro, e ci sono dei segnali positivi in questo senso, ma non si cancellano in un istante decenni di abitudini consolidate. Spiego in che senso mi ricorda l’eccitazione che respiravo in Cina al passaggio del millennio. Molti imprenditori occidentali che operano su questo mercato si stanno convincendo che «qui tutto è possibile». Sono affascinati dai progetti grandiosi di MbS. Per esempio la rivoluzione urbanistica e architettonica in corso a Riad. Oppure il progetto ancora più avveniristico di Neom: i cantieri faraonici per costruirvi la città del futuro, le industrie tecnologiche più avanzate e la sfida della sostenibilità. Neom dovrebbe diventare una sorta di Stato autonomo dentro il Regno arabo saudita, con regole e stili di vita decisamente più occidentali che arabe. Anche in tutto il resto del Paese l’evoluzione dei costumi e di certi diritti è palpabile, ad esempio la libertà per le donne di vestirsi come vogliono, di guidare, di uscire da sole in luoghi pubblici, di viaggiare da sole all’estero. MbS ha studiato i laboratori di Dubai e del Qatar e vuole replicare quel tipo di laicizzazione in un Paese ben più grande e soprattutto ben più centrale per l’Islam.
Gli imprenditori occidentali sono colpiti dalla visione di lunghissimo periodo, un altro punto in comune con la Cina, e una differenza netta rispetto all’Occidente che vive di palpitazioni elettorali a ciclo frenetico. Chi investe in Arabia Saudita comincia a condividere un’opinione che unisce Riad a Pechino, e molte altre capitali di Nazioni emergenti: l’idea che l’Occidente è il passato, è una civilta in declino, mentre il futuro appartiene a «loro». Ho detto quanto l’Arabia sia oggettivamente piccola rispetto alla Cina. È piccola – come popolazione, non come Pil o ricchezza finanziaria – anche rispetto a tre attori geopolitici delle vicinanze: l’Iran che sfiora i 90 milioni di abitanti, la Turchia che si avvicina con oltre 85 milioni, l’Egitto a quota 113 milioni. Nei confronti delle mire egemoniche di Teheran e Ankara, la monarchia saudita ha degli svantaggi che non sempre il denaro può compensare. Nonostante i suoi armamenti sofisticatissimi, il Regno arabo saudita non è riuscito in passato a domare la rivolta Huthi nello Yemen sobillata dall’Iran, per cui oggi devono occuparsene America e Regno Unito.
Per quanto «piccola» rispetto ad altri, l’Arabia Saudita è invece gigantesca se il paragone lo facciamo con gli Emirati e il Qatar, quei laboratori di modernizzazione e laicizzazione che il principe MbS ha sempre studiato con attenzione. Il Regno arabo saudita vuole replicare quegli esperimenti di successo su una scala assai superiore, e con una storia gloriosa alle spalle. Il custode dei luoghi sacri di Mecca e Medina ha come tale un prestigio notevole in tutto il mondo islamico che va dal Marocco all’Indonesia e include buona parte dell’Africa. La visione di MbS rilancia in chiave futuristica un «impero arabo» che nella storia fu capace di colonizzare anche l’Andalusia e la Sicilia, l’India settentrionale; e per alcuni secoli ebbe la civiltà più avanzata del pianeta. Questa memoria storica è un altro punto di contatto con la Cina, anch’essa erede superba di una civiltà con un senso di autostima sconfinato. Il mio impatto attuale con la «nuova Arabia» (la versione precedente la visitai nel 2017 viaggiando al seguito di Donald Trump, visita che sembra distante ben più di sette anni) mi suggerisce qualche cautela. Venendo dal vicino Qatar, nel Regno arabo saudita tutto mi sembra un po’ meno efficiente, e più caro. È uno dei tanti segnali della «febbre dell’oro»: tutti vogliono essere qui, chi vende ospitalità e servizi se ne approfitta, vedo un rapporto qualità-prezzo più esoso che a Manhattan. E il fenomeno da «febbre dell’oro» non riguarda solo gli hotel di una certa qualità e livello.
Grandi imprese che danno lavoro a maestranze importanti – migliaia di operai in cantieri edili – mi rivelano che il regno saudita specula sui dormitori per i dipendenti, affittando delle piccole stanze per cento euro a notte. Sono segnali di boom che potrebbero anche, a posteriori, rivelarsi come i sintomi di una bolla speculativa. MbS è impegnato in una corsa contro il tempo per realizzare tutti i progetti avveniristici della sua Visione 2030 prima che qualcosa vada storto e si metta di traverso. Già un poderoso vento contrario si è sollevato dal 7 ottobre 2023 con la strage di civili ebrei da parte di Hamas, e la conseguente reazione delle forze armate israeliane a Gaza. Il principe MbS aveva scommesso su una normalizzazione dei rapporti con Israele che ora è molto problematica. È un esempio dei tanti incidenti di percorso che possono interferire con i suoi piani. L’Iran di sicuro non vuole che l’Arabia decolli verso un futuro migliore, perché il successo di MbS e del suo laicismo metterebbe ancor più in evidenza la criminale incompetenza degli ayatollah.