«Mio padre non voleva che facessi il musicista»

by Claudia

Intervista  ◆  Juraj Valcuha l’8 febbraio dirigerà il concerto dell’OSI al LAC accostandosi alla celeberrima Eroica di Beethoven

Forse, se avesse studiato pianoforte come Piotr Anderszewski, non sarebbe diventato un direttore d’orchestra e non si sarebbe presentato, come farà giovedì 8 febbraio, sul podio dell’Orchestra della Svizzera Italiana forte di un curriculum di assoluto prestigio. Juraj Valcuha è stato il direttore musicale del teatro San Carlo di Napoli, di orchestre prestigiose come la Rai in Italia, di Houston e Pittsburgh in America; al LAC accosterà la terza sinfonia di Beethoven, la celeberrima Eroica, al terzo concerto per pianoforte di Bartok, solista proprio Anderszewski.

Tutto iniziò col cimbalo: «Mio padre non voleva che facessi il musicista» ricorda il quarantottenne musicista di Bratislava «In famiglia la musica non aveva avuto mai grandissimo spazio. Però il mio bisnonno, quando era emigrato a Pittsburgh per cercare lavoro, aveva scoperto e studiato il cimbalon, uno strumento desueto che noi colleghiamo immediatamente alla musica popolare, al repertorio folclorico, ma che fu usato nel Novecento da autori come Stravinskij, Dutilleux e Boulez. Quando mio nonno ritornò in patria, ne portò a casa uno; e quando ero piccolino si trovava ancora nel salone di mio nonno; a me piaceva toccarlo, azionarne i tasti fu il modo con cui entrai in contatto con la musica».

Difficile però trovare una classe di cimbalon al Conservatorio di Bratislava, «e allora, pur di entrare nel mondo della musica, mi iscrissi a composizione». Stava imboccando una strada che l’avrebbe portato in una direzione inattesa e imprevista, ma decisiva: «Al corso di composizione si imparano anche i rudimenti della direzione d’orchestra.

«Capii che quando i brani sono difficili e magari c’è anche poco tempo per provarli, l’apporto del direttore può rappresentare»

L’insegnante, dopo qualche lezione, mi consigliò di provare a prendere in seria considerazione quella strada, gli sembravo portato. La prima volta che salii su un podio fu per dirigere una mia composizione, un Settimino; capii che quando i brani sono difficili e magari c’è anche poco tempo per provarli, l’apporto del direttore può rappresentare un aiuto importante, così decisi di dare il mio contributo alla musica e ai musicisti salendo su un podio».

Ancora oggi, dopo centinaia di concerti e opere, si stupisce nel «vedere come un singolo movimento, uno scatto o una flessione di un solo dito possano creare un’intima connessione tra il podio e l’orchestra e far variare dinamiche, suoni, accenti, fraseggi. È come una discussione: mentre la musica avanza accade qualcosa, e non si può andare avanti senza tenere in considerazione che cosa sta succedendo, la reazione che l’orchestra ha avuto a un mio stimolo».

Dialogando ci si conosce sempre più, e «quando si instaura questa fiducia reciproca, allora si può tentare di far qualcosa di diverso, di nuovo, si può osare. Anche perché per me la curiosità è un elemento fondamentale: bisogna lasciarsi sfidare e provocare, bisogna spaziare e scoprire, passare dall’opera alla sinfonica, dal grande repertorio alla contemporanea, e se possibile aprire un dialogo e un confronto con i compositori viventi».

Se quel Settimino fu un’ispirazione e tracciò la strada, il percorso prese la direzione della Russia svoltando a New York: «Nel 1994 avevo diciotto anni e cantavo nel coro del Conservatorio; tenemmo una tournée lunga la Est Coast degli Stati Uniti; a New York c’era un concerto della NY Philharmonic, orchestra mito; a dirigere c’era un personaggio che non mi diceva assolutamente nulla, un certo Valery Gergiev (ride: è considerato uno dei massimi diretttori degli ultimi trent’anni, ndr.), allievo di Ilya Musin. Mi sono detto: se uno che ha studiato a Leningrado arriva alla Filarmonica di New York, vuol dire che la scuola russa è una buona scuola. Un anno dopo ero davanti a Ilya Musin. Era nato nel 1903, tre anni prima di Shostakovich, ma nonostante l’età andava a insegnare al Conservatorio di San Pietroburgo ogni giorno; fui suo allievo per due anni, un periodo decisivo». Anche l’essere nato a Bratislava ebbe un’influenza non secondaria: «Ai miei tempi era dentro la “cortina di ferro” – infatti sono cresciuto con i grandi autori russi – e prima faceva parte dell’impero Austro-Ungarico, era una sorta di sorella minore di Vienna e Budapest: per questo gli autori che hanno avuto l’impatto maggiore quando ero studente sono stati i viennesi di inizio Novecento come Mahler e Richard Strauss, i cechi e i magiari come Janacek e Bartok».

Autori su cui convergono le attenzioni anche del pianista Anderszewski che pure abbiamo sentito: «Da alcune stagioni sto eseguendo sempre più Bartok e Janacek, sto capendo e ammirando sempre più la loro musica. Bartok, soprattutto: è un gigante; non posso dire di amare tutto ciò che ha scritto, ma quanto del suo catalogo scelgo di affrontare… beh, lo adoro. Talvolta non riesco a cogliere appieno il lato etnografico, l’acribia scientifica con cui recuperava la tradizione musicale popolare più sinceramente ungherese, e in generale percepisco un lato misterioso dietro le sue note cui non riesco ancora ad arrivare, ma, essendo io polacco, ho la sensazione di parlare lo stesso linguaggio, che non è parte del ceppo indoeuropeo, e questo mi aiuta a interpretare la sua musica». Anche lui era passato dall’America, «e con fatica, perché dalla Polonia prima della caduta del Muro di Berlino era difficile andare oltreoceano; ma fu una delusione: in quel sistema, dominato da una corsa frenetica verso la carriera e il successo, mi sembrava di correre solitario nel deserto, non avevo una guida che mi aiutasse a sviluppare il mio talento, come poi accadde tornato in Europa».

ABBONAMENTI
INSERZIONI PUBBLICITARIE
REDAZIONE
IMPRESSUM
UGC
INFORMAZIONI LEGALI

MIGROS TICINO
MIGROS
SCUOLA CLUB
PERCENTO CULTURALE
MIGROS TICINO
ACTIV FITNESS TICINO