Su un treno regionale due bambine, sedute l’una di fronte all’altra, sono intente a svolgere un semplice esercizio che, scopro ben presto, si rivela essere una sorta di gioco. Entrambe guardano fuori dal finestrino del treno e, a turno, ciascuna pronuncia una parola o, meglio, indica la presenza di qualcosa: un dettaglio, una persona, o un oggetto presenti nelle loro immediate vicinanze o, alternativamente, prelevati dal paesaggio che si offre alla vista fuori dal finestrino.
All’inizio il treno è fermo, in attesa della partenza, ma poi comincia a muoversi. Continuo ad ascoltare e, intanto, comincio a intuire la logica. Mi dico che, ora che il treno è in movimento, gli spunti per garantire la continuità al gioco non mancano. Un treno in movimento, e un paesaggio incorniciato da un finestrino: due dettagli che, da soli, bastano a scacciare l’immobilità, offrendo un sollievo alla monotonia.
Mentre ascolto l’alternarsi di quelle voci che, a turno, descrivono un pezzo di mondo, ho una piccola rivelazione. Se, come intuisco, il movimento del treno garantirà un continuo fluire di nuovi dettagli – alcuni minuscoli, altri più evidenti – evitando che, in mancanza di stimoli, il gioco stagni o si esaurisca, allora quelle due ragazzine stanno giocando a un gioco potenzialmente infinito. Ormai sufficientemente incuriosito, mi giro (occupo, nel treno semivuoto, i quattro sedili di fronte), rivolgendomi alle due signorine che, sorridenti, garbatamente mi confermano che sì, effettivamente si tratta di un gioco.
Attento a non turbare le evoluzioni dello stesso, mantengo la postura di un osservatore discreto, ciò che consente alle due giocatrici di proseguire indisturbate nel loro esercizio. Approfitto, quindi, per mantenere un orecchio attento, e poco dopo, mi accorgo di una caratteristica del gioco che non avevo previsto, e che gli conferisce una nuova dimensione. Si possono nominare – così mi pare –, anche persone, cose o oggetti in qualche modo presenti solo nella mente delle giocatrici, nei loro ricordi, nella loro memoria: questo amplia di molto il loro raggio d’azione, dato che permette di attingere alle risorse del mondo interiore nominando, oltre che le cose presenti e visibili, anche quelle assenti e lontane.
I giochi che decretano un vincitore si potrebbero chiamare dei giochi finiti. E anche se il gioco può ripartire, è pur sempre una nuova partita, la quale presuppone che quella vecchia sia conclusa. Il gioco proposto dalle due bambine mi sembra decisamente più indeterminato, più aperto: non finisce, ma semmai può essere – anche solo momentaneamente – abbandonato, e poi ripreso, come una conversazione, a piacimento.
Purtroppo, la società competitiva in cui viviamo ci ha abituato a pensare che i giochi abbiano quasi sempre un vincitore e, di converso, ci fa dimenticare che esistono dei giochi di un altro tipo, meno competitivi, e più collaborativi.
Insomma, questa faccenda mi porta a interrogarmi su quali siano le condizioni affinché un gioco possa autoalimentarsi fino a diventare, come dicevo, potenzialmente infinito. E su come il gioco sia una presenza così diffusa nella nostra esistenza e nel nostro linguaggio: avere buon gioco, entrare in gioco, essere in gioco, far gioco, fare il doppio gioco, fare il gioco di qualcuno, fare gioco pesante, fare un gioco di prestigio, mettersi in gioco, fare qualcosa per gioco, prendersi gioco di qualcuno, scoprire il gioco di qualcuno, stare al gioco, un bel gioco dura poco, un gioco da ragazzi. Le espressioni linguistiche che si affidano al gioco per esprimere le sfumature del reale sono davvero tante. A volte poi ci sono dei momenti della nostra giornata, delle situazioni, delle affinità con una persona, delle circostanze e degli stati d’animo particolari che fanno sì che la vita suggerisca, spontaneamente, l’esperienza del gioco.
Il gioco aperto, indeterminato, può altresì diventare filosofia di vita: e allora il gioco finisce per diventare una potente metafora utile a descrivere la vita. Come scordarci che, in inglese e in francese, interpretare un ruolo si dice to play a role e jouer un rôle e che, come diceva un personaggio di Shakespeare «all the world’s a stage» («Tutto il mondo è un teatro»)? Ricordo che, tempo fa, in un breve frammento descrissi il dialogo fra due persone come se fosse una partita a tennis. Faceva così: «Discutevano per delle ore intere, poi si fermavano ad ascoltare la pioggia battere contro la finestra. La pioggia si insinuava fra di loro, tamburellando nel silenzio. Stavano perfezionando l’arte del dialogo prolungato: ascoltavano, parlavano, ascoltavano, parlavano. I cambi di voce erano ritmati da un’esigenza di perdersi dietro alle parole. Seguiva le sue parole mentre spiccavano il volo dalla sua bocca per poi perdersi nell’aria come in una nuvola di denso fumo bianchissimo. Poi osservava il movimento a pendolo della sua voce e della voce di lei, concentrandosi sul movimento simmetrico, andirivieni di parole. Cercava di modulare il dialogo in modo che le loro parti fossero simmetriche. Di nuovo seguiva il movimento delle voci, lento e pigro oscillare di parole, ma questa volta dall’esterno. Si metteva esattamente in mezzo, e osservava. Come se il dialogo fosse una partita a tennis. Parlava in modo sciolto, disinvolto. Ma lui era altrove; era sul bordo del campo: esattamente al centro, a osservare il fraseggio dei giocatori. Sul bordo del campo osservava la partita. Era diventato spettatore partecipe di una partita in cui vedeva crescere l’intesa degli scambi: complice e artefice di una simmetria tale da alimentare, da sola, il ritmo di un gioco che ora si reggeva su sé stesso».
Quello delle due ragazzine era un gioco che si regge su sé stesso. E in fondo anche il tennis, e così molti altri sport, se praticati in un certo modo, possono trasformarsi in un gioco infinito. Basta non contare i punti e, se si fa una pausa, riprendere il gioco come si riprende una conversazione interrotta. Ma allora perché si dice che «un bel gioco dura poco»? Non bisognerebbe dire che un brutto gioco dura poco e che, del bel gioco, semmai bisogna ritrovare il filo? Come diceva Nietzsche, «la maturità di una persona consiste nell’aver trovato di nuovo la serietà che aveva da bambino, quando giocava». E prima di lui Platone, a quanto pare, affermava che «la vita deve essere vissuta come gioco».