Alpinismo - In solitaria lungo la costa Ovest del Monte Legnone fino a raggiungere la sua croce in vetta
Con i suoi 2610 m s.l.m., il Monte Legnone è la vetta più alta del settore occidentale delle Alpi Orobie. Si trova ai piedi di Dervio, piccolo comune italiano della provincia di Lecco situato sulla sponda orientale del Lago di Como. Ho notato la sua cima per la prima volta due anni fa, durante un trekking sul Monte Grona e poi successivamente sul Monte Bregagno. Stava lì, dominante sulle altre vette con le pareti a strapiombo e le ripidi creste. Da quell’istante, ogni volta che mi allenavo sul Monte Generoso, il Bisbino, il Sasso Gordona e tutte le altre vette del triangolo Chiasso, Porlezza e Gravedona, mi soffermavo a guardare il suo aspetto intimidatorio.
Ed è proprio quell’apparente inaccessibilità ad avermi attratto, tanto che dopo una scalata di preparazione sulla Grigna settentrionale, mi sono deciso a salire su quella che i Romani battezzarono «Tricuspide», perché dava loro l’idea di essere composta da tre cime distinte.
La strada, tutta asfaltata, che conduce al rifugio Roccoli Lorla (1469 m s.l.m.) si presenta molto stretta e insidiosa a causa di alcuni precipizi che la costeggiano. Per mia fortuna sono partito molto presto e procedo senza dover incrociare altri veicoli provenienti dalla parte opposta. Gli slargamenti della carreggiata sono pochi e lontani tra loro. Alle 6:30 arrivo al posteggio e preparo il materiale per la scalata.
Ho la perfetta visuale sulla cresta Ovest che conduce alla traversa della vetta. Da qui sembra molto ripida e stancante. Preferendo affrontare i tratti più impegnativi con maggior freschezza fisica mi decido ad alleggerire il pacchettaggio. A scapito della corda mi porto la seconda piccozza. Disabilitato per un’eventuale discesa d’emergenza sono consapevole di dover avanzare in modo lento e preciso, senza mai «deragliare» dalla via normale.
Sono ormai le 7.00 di mattino e il termometro indica –6 °C. Il laghetto vicino al rifugio è una spessa calotta di ghiaccio e intorno regna il silenzio. A dire il vero speravo di incontrare altri «delinquenti» di montagna, sui quali avrei potuto riposare gli occhi nei momenti più difficili. Invece, come poi risulterà, quel giorno non incontrerò nessuno. L’imminente Santo Natale e i numerosi incidenti avvenuti nelle ultime settimane sembrano aver scoraggiato gli altri scalatori. Sulla direttissima muore un esperto alpinista di Milano. Altri quattro vengono tratti in salvo sul canalone Sovian dopo un salvataggio durato ben otto ore. Infine, un escursionista di 40 anni rimane incrodato su una parete dopo aver sbagliato la strada proprio sulla cresta Ovest.
Il sentimento di solitudine riesce a penetrami fin nelle viscere dell’anima. Dopo un paio d’anni di continui corteggiamenti a distanza mi trovo davanti al cospetto di Sua Maestà delle Orobie. Io e Lei, soli. Osservo per l’ultima volta il crocifisso sul ripido ammasso di roccia, neve e ghiaccio. Per la prima volta sono deciso a rinunciare di toccarlo… Nel frattempo le forti raffiche di vento gelido cessano di soffiare con il primo chiarore mattutino: è il momento di mettersi in moto.
Il sentiero che conduce alla capanna Cà de Legn è tra i più belli che ho potuto incontrare in montagna. Circondato esclusivamente da conifere, profuma di pino ed è ricoperto degli aghi caduti dai rami rendendo piacevoli i passi lungo il cammino. Purtroppo con il guadagnare della quota assume le sembianze di un campo minato che, come per metamorfosi, diventa gradualmente ghiacciato e innevato. Il fastidio provocato da quel miscuglio consiste non soltanto nel pericolo di scivolare, ma anche nel fatto di essere poco «ramponabile» viste le numerose rocce e anche i detriti che ne compongono la superficie.
Con l’ausilio del GPS evito l’alpe di Agrogno e continuo su una variante parallela; più faticosa a causa di una maggiore inclinazione, ma molto più sicura e gradevole per le articolazioni. Venti minuti dopo, giungo sul sentiero principale che dà inizio alla cresta Ovest, ormai diventata una lastra di ghiaccio. Da qui in avanti è necessario l’uso dei ramponi. Non è un sentiero difficile ma è stretto e richiede un buon equilibrio. Aiuta la presenza di alcune corde fisse che facilitano il percorso verso la capanna situata a 2146 m s.l.m.
Posizionata poco dopo la «Porta dei merli», un passaggio roccioso con un panorama mozzafiato su tutta la Valsassina, Cà de Legn venne eretta nel 1894 da un gruppo di pionieri dell’escursionismo milanese. La struttura in legno fungeva da casello per la caccia della selvaggina e l’abbattimento degli orsi che stavano sovrappopolando la zona ai danni del resto della fauna locale. A proposito di plantigradi, il Monte Legnone è ricco di leggende e aneddoti. C’è quella che narra di un feroce orso che vagava per i sentieri della zona, quando incontrò un toro. Il tratto era talmente stretto che non presentava vie di fuga per entrambe le bestie. I due animali si fermarono fissandosi ben bene negli occhi. L’orso, apparentemente affamato, vi vide un delizioso boccone. Si drizzò grugnendo sulle zampe posteriori e si gettò sulla preda. Il toro abbassò la testa e con un abile colpo di corna inchiodò l’avversario contro la roccia, aprendogli il ventre. L’orso perì all’istante, ma rimase in posizione eretta, perché il toro, per la paura che fosse ancora vivo, continuò a tenerlo inchiodato alle corna. Qualcuno dice che rimase lì, nella stessa posizione, fino a morire di fame. Altri assicurarono che i pastori lo liberarono tre o quattro giorni dopo, guadagnandoci la pelle.
L’orso più celebre del Legnone rimane però quello soprannominato «il chirurgo». Un giorno un gozzuto che passeggiava ai piedi della montagna vide due orsacchiotti nel bosco. L’idea di impossessarsene però, non fu tra le più brillanti. L’orsa madre, nascosta tra gli alberi, infatti si scaraventò immediatamente sul malcapitato. Con un colpo degli artigli gli aprì la gola. Ne uscì un secchio d’acqua e il povero contadino si sentì risollevato, perché grazie a quell’intervento tornò a respirare meglio. Al suo ritorno nel paese tutti ne furono strabiliati.
La caccia sistematica eseguita dalla Cà de Legn ha con il tempo privato il Legnone del suo antico dominatore. Oggi viene comunemente chiamato il bivacco Silvestri, in onore di un alpino di Dervio che, nel 1951, vi svolse dei lavori di ristrutturazione, trasformandolo in una struttura in sasso. Così, dei possenti onnivori non rimane più traccia, ma il tratto da scalare per arrivare in vetta necessita una forza da orsi.
Classificato con un T4 (itinerario alpino) nella stagione estiva, è da considerarsi un PD (poco difficile) in quella invernale. Le pendenze variano tra i 45 e i 70 gradi, secondo la via intrapresa durante la scalata. La superficie del tracciato lascia sempre a desiderare. Un firn (ndr: neve allo stato granulare) fragile, con enormi buchi profondi fino alla coscia, il ghiaccio, la roccia nuda e la neve, sono la ragione dei numerosi incidenti delle recenti settimane.
Per quanto mi riguarda avanzo con i ramponi. Non è una soluzione da manuale alpinistico, ma il ghiaccio nascosto sotto quel tappeto rognoso è l’aspetto che temo maggiormente. Giungo alla fine della cresta là dove si unisce alla traversa che conduce in vetta. Qui comincia la parte più tecnica, nonché la più esposta. Con l’aiuto delle due piccozze mi arrampico sul muro di ghiaccio che porta al bivio delle due creste. Le forti raffiche di vento nella direzione del precipizio mi obbligheranno a cambiare strategia. Non continuerò sulla cresta, bensì qualche metro più in basso. Preferisco essere spinto verso la parete pur camminando su un pendio poco agevole, che avanzare su un piano ben battuto ma estremamente esposto.
Dopo circa 15 minuti arrivo ai piedi della vetta. Nelle condizioni odierne è l’ostacolo più arduo. Si stratta di un cumulo di rocce che andrebbero superate con l’uso di una corda fissa. Purtroppo la neve e il ghiaccio non ne rivelano un grande quantità e il rimanente risulta bucato dalle ramponate degli alpinisti passati in precedenza. Questa barriera che difende la vetta è posata a ridosso di uno striminzito colletto di ghiaccio fra due precipizi, uno di quei posti ove si cade una volta sola.
Con l’aiuto di un cordino e un moschettone mi assicuro con un nodo prusik, un autobloccante in caso di inaspettate cadute. Come molti stratagemmi che uso in montagna, anche questa non è un’operazione necessaria ma ha il merito di fornirmi un notevole confort mentale. In questo modo posso scavare qualche scalino preparando un appoggio più fidato, nonché sondare la consistenza del manto nevoso. Una tattica che ripeterò tre volte prima di arrivare in vetta e, che si dimostrerà utile durante la discesa.
Alle 12:30 sono davanti al crocifisso del Legnone. Come su ordine di Sua Maestà le potenti raffiche di vento si azzittiscono. Riesco a udire soltanto l’affanno del mio respiro corto, mi sento bene, mi sento minuscolo.