Tra luci e ombre Gérard A. Jaeger racconta la straordinaria figura del fondatore della Croce Rossa
Esiste un momento preciso nella vita del filantropo ginevrino Henry Dunant (1828-1910), Nobel per la pace nella prima edizione del premio nel 1901, a partire dal quale tutto cambiò per sempre, e non soltanto per lui. La scena è abbastanza nota, anche perché la descrisse lui stesso nel suo Ricordo di Solferino, pubblicato a proprie spese nel 1862. Al termine della carneficina del 24 giugno 1859 – durante la quale si erano scontrati duramente, a metà strada tra Brescia e Verona, l’esercito austriaco e quello francese nell’ambito della campagna militare che chiamiamo la Seconda Guerra d’Indipendenza italiana – lo spettacolo dei morti accatastati nei campi, e ancora di più quello dei feriti lasciati per terra al loro destino, fu tale da segnare per lui un punto di non ritorno.
L’opera di Gérard A. Jaeger mette in luce le ragioni profonde della vocazione di Dunant, senza nascondere ai lettori le sue ombre e le sue contraddizioni
Più in generale, Solferino fu veramente uno spartiacque che tagliò come una lama le coscienze europee allora molto assopite dalle retoriche del bellicismo nazionalista. «Mentre cercava l’imperatore, Dunant scoprì una realtà mostruosa, fino ad allora insospettata: quella di una guerra descritta come un evento glorioso, ma le cui conseguenze umanitarie erano spaventose. Mai eguagliate prima» (pp. 106-107).
Eppure il vero scarto si operò in lui non tanto per lo scempio che la battaglia si era lasciata dietro, in un’epoca in cui gli eserciti non avevano ospedali da campo né truppe sanitarie degni di tale nome, bensì a causa dell’atteggiamento delle donne lombarde che dai vicini paesi di Solferino e San Martino si arrabattavano sotto i suoi occhi per aiutare i feriti di parte francese: solamente quelli francesi, perché alleati del Piemonte e quindi della nascente Nazione italiana. Gli austriaci, morti o feriti che fossero, restavano abbandonati sul campo come altrettanti soldati di serie B. È difficile, e forse nemmeno giusto, giudicare oggi il comportamento di queste donne, che si trovarono a operare in un contesto drammatico con le poche risorse a loro disposizione (quando un ferito scivolava dal carro, nessuna di loro era in grado di fermarsi a raccoglierlo e il poveretto finiva per morire nel punto esatto in cui era caduto).
È certo però che questi fatti, o quantomeno la sproporzione tra questi fatti e il senso di giustizia che il ginevrino aveva appreso dalla sua educazione cristiana, suscitarono in lui la mossa mentale da cui sarebbe dipesa in seguito la nascita della Croce Rossa. Non più «i nostri» contro «i loro», gli alleati e i nemici, i difensori o gli invasori, bensì – nelle parole di Dunant – «tutti fratelli», con una formula di grande efficacia morale ed emotiva che curiosamente, e forse non per caso, vista dal 2024 rappresenta il rovesciamento sintattico del titolo dell’ultima enciclica di Papa Francesco. «Il buon cristiano formatosi nella pietà fin dalla più tenera età era ormai preso in un ingranaggio fatale. […] Colto dal dovere di carità, [Dunant] non poteva rimanere inattivo di fronte a una tale depravazione della sofferenza» (p. 108). Tutto quel che ne seguì non fu insomma che una diretta conseguenza di quella scioccante epifania sperimentata sulle pianure del Garda.
Il romanzo-saggio di Gérard A. Jaeger, recentemente pubblicato in italiano da Armando Dadò con una prefazione del chirurgo valmaggese Flavio Del Ponte (per anni lui stesso medico della Croce Rossa nei più drammatici teatri di guerra), mette in luce molto bene le ragioni profonde della vocazione di Dunant, senza nascondere ai lettori le ombre e le contraddizioni che pure caratterizzarono una personalità indubbiamente complessa e tormentata. Nato in riva al Lemano in una famiglia protestante di condizione agiata pur senza essere aristocratica (un tarlo che l’avrebbe logorato per sempre), allettato in gioventù dal sogno colonialista e poi per tutta la vita oberato dai debiti causati dai suoi sciagurati investimenti algerini, Dunant assommava in sé una quantità notevole di difetti: invidia, adulazione, opportunismo, ma anche egocentrismo, vittimismo, scarsa propensione a riconoscere il lavoro altrui (tra gli altri del sacerdote italiano Lorenzo Barziza, molto attivo a Solferino in quegli stessi giorni) e grande concentrazione invece sui propri meriti, veri o presunti. Sull’altro piatto della bilancia poteva mettere però, ed è un’ampia compensazione, una caparbietà e una capacità di convincimento fuori dal comune, un idealismo, un carisma e una generosità rari, tutte qualità che gli permisero di fare quello che ha fatto. L’autore richiama nel testo tutta la bibliografia sul tema, anche la più critica, ricordando ad esempio l’opuscolo con il quale poche settimane prima della battaglia, nel maggio del 1859, Dunant provò a ingraziarsi per suoi interessi personali il nipote di Bonaparte che sedeva sul trono di Francia: L’Empire de Charlemagne rétabli, ou le Saint Empire romain reconstitué par Sa Majesté l’Empereur Napoléon III (e ci volle davvero una bella faccia tosta).
Il testo di Jaeger si legge volentieri anche se a volte paga lo scotto di essere un oggetto ibrido, a metà strada tra il romanzo e il saggio
La seconda parte del libro, superato lo scoglio di Solferino, si concentra sulla lunga costruzione delle premesse che portarono all’istituzione del CICR (chiamato inizialmente «l’Internazionale», con le ironiche allusioni che si possono immaginare), alle Convenzioni di Ginevra e infine alla nascita di comitati locali in molti Paesi d’Europa e del mondo. A questa impresa, anch’essa non priva di tensioni e di gelosie interne, non furono secondarie naturalmente l’identità elvetica del fondatore, la sua predisposizione al lavoro diplomatico e la nozione stessa di neutralità, da lui intesa come la più totale «assenza di un partito preso».
Il testo di Jaeger si legge volentieri e non mancano le informazioni e i rimandi in nota, utili a chi voglia approfondire l’argomento, anche se a volte paga lo scotto di essere un oggetto ibrido, a metà strada tra il romanzo e il saggio (e spesso incerto sul da farsi), diviso tra la cronologia della vita di Dunant e la scena che fa da sfondo a tutto il libro, cioè l’incontro tra l’anziano filantropo dimenticato dal mondo e il giornalista Georg Baumberger, avvenuto nel 1895 quando pareva oramai incolmabile la distanza che separava la casa per anziani di Heiden, nell’Appenzello Interno, dalla Ginevra internazionale della Croce Rossa. Una distanza che, per il lettore di oggi incuriosito dalle vicende storiche, questo libro prova in qualche modo a colmare.