Migrazione, l’odissea di Waffoh Soh Deyo Leandry Shyve per individuare i corpi di moglie e figlio morti nel Mediterraneo
Questa è la storia di un uomo sopravvissuto a un naufragio. Della sua disperazione, della sua forza e della sua determinazione nel voler ritrovare a tutti i costi i corpi di sua moglie, Sanogo Banaferiman, incinta, e di suo figlio, Waffoh Soh Deyo Idriss Ange, che non aveva ancora compiuto due anni. Entrambi affogati insieme a decine di adulti e di bambini nella notte tra l’11 e il 12 aprile del 2023 al largo delle coste di Sfax, Tunisia. C’erano un centinaio di persone sopra quella barca di legno ribaltatasi mentre la motovedetta della Guardia nazionale di Tunisi la inseguiva per catturare i migranti e riportarli indietro. Decine e decine di morti, come detto, nel cimitero a cielo aperto che è diventato in questi anni il Mediterraneo.
«Io mi chiamo Waffoh Soh Deyo Leandry Shyve», ci racconta l’uomo. «Voglio affidarvi il mio vero nome e quelli di mia moglie e di mio figlio, darvi le nostre foto e il video che ho girato tra i flutti perché voglio rendere omaggio alla loro esistenza e restituire dignità alla loro morte indegna». Il nostro interlocutore è della Repubblica del Camerun, Africa centrale. Nel 2019 si trasferisce con la famiglia in Tunisia. Infuria la «caccia ai neri», il sistema è sempre più razzista verso i subsahariani. Nel pomeriggio dell’11 aprile sale con moglie e figlio su una grande barca di legno piena di gente. Obiettivo: Lampedusa, Europa. Questo è il suo racconto: «Siamo partiti verso le sei del pomeriggio. Eravamo tanti. Dopo qualche ora di navigazione la nostra barca è stata avvistata dalla Guardia nazionale tunisina. Si sono messi a inseguirci. Ci hanno raggiunto, hanno intimato al capitano di fermarsi, ma lui non voleva farlo. Loro si sono avvicinati più volte, sempre di più. La nostra barca si è ribaltata. Tutti erano in mare e gridavano. Era verso mezzanotte. Le autorità tunisine sono rimaste ferme sul loro mezzo a dieci, quindici metri da noi. Solo verso l’una di notte hanno cominciato a soccorrerci. Hanno incaricato otto di noi sopravvissuti presi a bordo di aiutarli a ripescare i corpi. Tra i cadaveri che ho recuperato c’era anche mia moglie. Mio figlio no, non l’ho trovato. Non c’era tra i corpi recuperati, mio figlio. Ci hanno riportati indietro e quando siamo arrivati in porto ci hanno ordinato di scaricare i corpi dalla barca della Guardia nazionale e di lasciarli lì sulla banchina. E da quel momento non è stato possibile sapere dov’erano, dove li avevano portati. Li volevo trovare, volevo sapere dove avevano portato il corpo di mia moglie e volevo trovare il mio bambino».
Per mesi rimbalza tra uffici che non gli rispondono. Chiede ad ambasciate, uffici consolari, organizzazioni internazionali varie, Croce Rossa, invano. Non si arrende e finalmente trova l’associazione Memoria Mediterranea (Mem. Med) – che si occupa di ricerca e identificazione delle persone disperse nel Mar Mediterraneo, fornendo supporto legale e psico-sociale alle famiglie in cerca di notizie – trova le persone capaci di aiutarlo. Loro gli cercano un avvocato in Tunisia. «Dovevo trovarli e seppellirli», dice Waffoh. «Ho vissuto la mia vita con lei e con lui; sono morti in questo modo terribile e per me era necessario recuperare e identificare i corpi dei miei amori». Dopo un lavoro di ricerca minuzioso, il 20 luglio è riuscito a essere ricevuto all’ufficio della polizia scientifica di Sfax, accompagnato dal suo legale, Maître Bilel Mechri. Consulta i dossier conservati nell’Ospedale di Sfax. Riesce a vedere le foto dei cadaveri e i numeri che indicano le posizioni esatte delle tombe. «Li avevano messi in due cimiteri diversi e distanti. Ho finalmente saputo dov’erano e ho guardato con i miei occhi quelle due colate di cemento con sopra inciso il numero del dossier corrispondente ai cadaveri. Sotto una colata di cemento c’era il mio bambino, sotto l’altra c’era mia moglie».
Anche allora non riesce a darsi pace, non poterli vedere, non poter fare una cerimonia funebre lo lascia in uno stato di incertezza. «Come posso esser certo che siano davvero i loro corpi e non quelli di altri? Come faccio a fidarmi della Guardia nazionale?», chiede. Qualche giorno dopo sale su un barchino di ferro. E arriva in Sicilia. Se gli si chiede quale sia il suo desiderio risponde: «Vorrei ritrovare la pace che non riesco più ad avere, vorrei che la mia battaglia per ritrovare i miei amori potesse essere utile perché giustizia sia fatta, soprattutto rispetto alla Guardia tunisina e per il modo in cui vengono trattate le persone che come me attraversano il mare». Se si insiste a domandare cosa voglia per sé, dice: «La mia speranza più grande è che mi arrivino presto i documenti necessari a stare in Europa, a lavorare» che aspetta dall’Italia da mesi. Spiega Ludovica, ricercatrice di Mem. Med che ha lavorato insieme a lui fino a riuscire a localizzare i corpi: «Non accade solo in Tunisia; in molti Paesi del sud affacciati sul Mediterraneo il sistema per la ricerca e l’identificazione delle vittime è fallimentare e non uniforme. Noi abbiamo lavorato sul sud Italia e sulla Tunisia e abbiamo constatato tantissime lacune nonostante il fenomeno delle migrazioni di massa sia consistente e per nulla nuovo perché le prime informazioni su grandi naufragi nelle rotte del Mediterraneo centrale sono del 2011 e in Tunisia ci sono conflitti terribili da allora. Nonostante il dramma, questa storia di ricerca andata a buon fine è una eccezione. Io in Tunisia ho ricevuto 300 richieste di aiuto in 6 mesi da parenti di persone disperse. E questa è l’unica che ha avuto un esito. Quando si comincia a cercare esiste un passaggio obbligato con il comitato della Croce Rossa internazionale che ha un programma specifico, “Restoring Family Links” (rintracciamento famigliare), con il compito di raccogliere tutte le segnalazioni di scomparsa e di incrociare le informazioni raccolte nei vari Paesi. Si deve comunicare con gli uffici della Guardia nazionale e con gli ospedali, ma le autorità non hanno un mandato di ricerca e soccorso. Chi muore? Tanti corpi vengono lasciati in mare. Quando il recupero c’è, il cadavere viene messo sotto terra alla bell’e meglio, non accade solo ai subsahariani che subiscono un fortissimo razzismo, succede anche ai tunisini, è una procedura diffusa. Le famiglie degli scomparsi denunciano ad ambasciate, Croce Rossa, organizzazioni internazionali varie e nessuno li richiama».
Di Waffo racconta l’avvocato Maître Bilel Mechri: «Quando l’abbiamo incontrato era in una situazione psicologica di crollo. Era terrificato da quel che aveva passato, era disperato all’idea di non sapere dove fosse finito il corpo di sua moglie e aveva il pensiero fisso di suo figlio in fondo al mare. Ripeteva in continuazione: “Lo mangiano i pesciolini, devo trovarlo, lo mangiano i pesci”. Quando a Sfax hanno rintracciato i punti in cui erano stati sepolti i due corpi, quando gli hanno mostrato l’immagine dei vestiti del figlio, oltre alla foto del corpicino, e lui l’ha riconosciuto, era in uno stato indescrivibile: tristissimo, in lutto profondo e nella disperazione, ma era sollevato di averli ritrovati. Si è dissolta l’idea del bambino in fondo al mare, finalmente aveva saputo che suo figlio non era stato mangiato dai pesci. Come ha saputo dov’erano sepolti i corpi si è voltato e ha iniziato a correre».