Quel sogno di «dedollarizzare» il mondo

by Claudia

Focus sui BRICS, gli Stati emergenti guidati dalla Cina che si contrappongono all’Occidente euro-americano

Dice Vladimir Putin che con il vertice di ottobre a Kazan, in Russia, i BRICS si allargheranno in misura massiccia: sono infatti una trentina, rivela il leader del Cremlino al quale tocca quest’anno la presidenza a rotazione del raggruppamento, gli Stati che hanno manifestato disponibilità all’adesione. Sarà il terzo allargamento nella storia di questo nuovo protagonista della scena internazionale: il primo si verificò nel 2010 quando i BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) divennero BRICS con la cooptazione del Sudafrica, il secondo con l’avvio del 2024 e l’adesione di altri cinque Stati: Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti. I dieci Paesi, che ancora vengono chiamati BRICS anche se l’acronimo non corrisponde più alla reale consistenza del gruppo, ospitano il 40 per cento della popolazione mondiale e realizzano il 30 per cento del prodotto lordo. Queste cifre nascondono una realtà tutt’altro che omogenea. Tanto per cominciare la diversità delle dimensioni demografiche non può non riflettersi sui dati relativi alla ricchezza complessiva: altro discorso ovviamente è quello del Pil pro capite. Fatto sta che la Cina da sola produce quasi il doppio degli altri nove Paesi, il Pil del gigante asiatico è quattordici volte quello della Russia. È anche sei volte superiore al prodotto dell’India, ma il Paese più popoloso del mondo intende risalire la china che la separa dall’ingombrante vicino. Pechino a sua volta è alle prese con un calo demografico che potrebbe frenare gli indici di sviluppo.

Del resto non si tratta soltanto di masse umane e di parametri produttivi: i BRICS sono un gruppo eterogeneo anche per le diversità ideologiche, mentre alcuni Paesi sono divisi da cronici contrasti. Soltanto India, Brasile e Sudafrica, a ben vedere, possono chiamarsi democratici nel senso ovvio del termine, tutti gli altri funzionano con altre modalità. Si pensi inoltre alla rivalità fra Cina e India sulla duplice linea di contatto della frontiera terrestre e dell’area oceanica dell’Indo-Pacifico. O al bellicoso antagonismo mediorientale fra due potenze, Iran e Arabia Saudita, in lotta da sempre per una supremazia regionale nutrita di rivalità religiosa. La stessa squadra dei dieci BRICS attuali risente delle disparate visioni politiche. Questa situazione è simboleggiata dall’assenza di due Stati, Algeria e Argentina, che a suo tempo avevano chiesto di essere cooptati. L’adesione dell’Algeria è stata bloccata dall’India a quanto si dice su pressione francese; in Argentina è stato invece il corpo elettorale, affidando la presidenza al conservatore ultrà Javier Milei, a far naufragare il disegno del precedente Governo, che guardava con interesse ai BRICS. Al contrario Milei arriva addirittura a prospettare il ricorso al dollaro americano come valuta nazionale al posto del peso.

Il motto scelto dalla presidenza russa esalta il multilateralismo. Il fatto è che le dimensioni della Cina le attribuiscono inevitabilmente un ruolo guida. Dunque la prospettiva non è tanto quella di un mondo multipolare come vorrebbe la retorica anti-globalista, ma piuttosto di due blocchi contrapposti: da una parte l’Occidente a guida euro-americana, dall’altra gli emergenti a guida cinese, sia pure in un contesto non altrettanto formale. Li unisce il grande sogno di «dedollarizzare» il mondo sostituendo alla valuta dominante un’altra moneta. Resta il dubbio: si parla di una nuova valuta o dello yuan cinese? L’assalto al dollaro è voluto soprattutto dalla Russia, ma anche qui si registra una contraddizione di fondo: Mosca agisce mossa da considerazioni politiche, mentre Pechino pensa soprattutto a fare buoni affari.

Intanto si affaccia sullo scenario mondiale una creatura per molti versi simile ai BRICS. L’ha fatta propria, dopo che l’agenzia Fidelity l’aveva lanciata, quello stesso Jim O’Neill che nel 2001, quando era economista della Goldman Sachs, varò il gruppo degli emergenti. O’Neill sostiene che quattro Paesi presentano al momento le maggiori potenzialità di sviluppo. Sono i MINT: Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia. Ancora una volta si tratta di situazioni assai diverse. Per esempio mentre la Turchia naviga verso la modernità nonostante il rigorismo religioso di Erdogan e le sue nostalgie imperiali, la Nigeria fatica a scrollarsi di dosso l’etichetta del sottosviluppo. Ma le cospicue risorse energetiche e minerarie e una popolazione in impetuoso sviluppo la destinano a un ruolo di primo piano nel contesto africano.

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