Bettino Craxi, grande statista o ladro?

by Claudia

Novant’anni fa nasceva a Milano il leader storico del Partito socialista italiano a cui Roberto Benigni inviò una cartolina...

Il 24 febbraio 1934, circa novant’anni fa, nasceva a Milano Bettino Craxi, leader storico del Partito socialista italiano (PSI), che guidò dal 1976 al 1993. Pochi uomini politici della Penisola sono divisivi come fu – e tuttora è considerato – lui. Al punto che, se si dovesse compiere un sondaggio tra i suoi connazionali che ancora lo ricordano, o sanno chi sia stato, probabilmente la metà lo giudicherebbe un ladro mentre l’altra metà lo vorrebbe consegnato alla storia come un grande statista. La verità è come sempre più complessa, perché Craxi in qualche modo fu l’una e l’altra cosa. Fu infatti un uomo di Stato di elevate capacità, di cui diede prova quando fu primo ministro, tra il 1983 e il 1987, ma allo stesso tempo appartiene alla categoria dei più grossi manigoldi per il suo sprezzante cinismo, che lo portò a trasformare il PSI in una mostruosa «macchina da guerra» mangiasoldi che rubava ovunque, per poter disporre dei mezzi per battere, a sinistra, il primato del Partito comunista.

Va del resto ricordato che molti tra i più abili uomini di Stato non sono candidi agnelli. Sono piuttosto mentitori seriali e, sul loro comodino, non tengono i Vangeli ma le massime di Niccolò Machiavelli. Craxi venne travolto dall’inchiesta giudiziaria «Mani pulite» che nel 1992 scoperchiò la pentola maleodorante di Tangentopoli, ossia il diffuso sistema di corruttele che stritolava la Penisola come una piovra tentacolare, sia sotto la forma macroscopica dei finanziamenti illegali ai partiti, sia sotto il profilo delle fortune economiche ascendenti dei singoli personaggi politici.

Ora, su Craxi siamo in grado di rivelare un aneddoto che ci è stato raccontato da una fonte a lui assai vicina che vuol restare anonima, un suo ex collaboratore: un velenoso sfottò che ricevette dal regista e attore Roberto Benigni. Proprio nel pieno della bufera scatenata dall’inchiesta dei magistrati di «Mani pulite», il 3 luglio 1992 il segretario socialista pronunciò, alla Camera, un famoso discorso nel quale denunciò: «Fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati. E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare od illegale». Poi, con minacciosa spavalderia, lanciò il guanto di sfida all’intero arco dei partiti: «Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Nessuno si levò in piedi per contraddirlo.

Ma Craxi aveva peccato di sicumera. Se l’intervento denotava un indubbio coraggio, sul piano dell’assunzione di responsabilità (quanto meno come incipit potenziale di un processo di rifondazione di un sistema andato fuori controllo), tuttavia aveva il grande difetto di essere debole nelle argomentazioni addotte. L’antico adagio del «così fan tutti» non poteva essere invocato a circostanza attenuante, o sminuente, rispetto alla gravità della degenerazione che affliggeva il Belpaese. Un colpo di spugna, sul piano giudiziario, o anche politico, non poteva giungere attraverso una sentenza di riprovazione, o presa d’atto, così sommaria.

L’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, fu più lungimirante. Propose l’istituzione di una Commissione d’inchiesta che, mediante quella che definì «la grande confessione», facesse piena luce su tutto quanto era accaduto in Italia, concludendo i propri atti con la certificazione della morte e del fallimento dell’intero sistema, e la convocazione di elezioni per un’Assemblea costituente che varasse una nuova Repubblica presidenziale. È giunto il momento di raccontare l’inedito retroscena che si cela dietro l’episodio del famoso discorso parlamentare di Craxi. Poco dopo averlo pronunciato, il segretario socialista ricevette una cartolina illustrata nella quale era scritto: «Caro Bettino, un bel tacer non fu mai scritto». Firmato: Roberto Benigni. Il cineasta, con quel messaggio, beffardo e malizioso, intendeva pungolare Craxi, rimproverandogli di aver a suo modo aperto una breccia nell’omertà che allignava tra i partiti. Il capo del PSI, a quel tempo, era già afflitto dalla grave forma di diabete che lo avrebbe, di lì a pochi anni, condotto alla tomba.

Forse il male aveva lesionato la sua lucidità politica. Non era più l’uomo che, ai tempi dell’affaire di Sigonella, del 1985, aveva sfidato la potenza americana, impedendo che gli Usa mettessero le mani su un Abu Abbas, capo del gruppo paramilitare Fronte per la Liberazione della Palestina, che volava su un aereo intercettato dai caccia statunitensi e fatto atterrare in una base Nato in Sicilia.

Craxi, che aveva mediato con Yasser Arafat il rilascio di 454 persone che viaggiavano a bordo della nave da crociera Achille Lauro, prese in ostaggio da un commando palestinese, fece circondare dai carabinieri e dalla vigilanza aeronautica militare gli uomini del reparto speciale americano che volevano prelevare con la forza Abu Abbas per processarlo negli Stati Uniti. La controreazione di Sigonella, che avrebbe potuto sfociare in uno scontro armato senza precedenti tra potenze della Nato, consentì ad Abu Abbas di lasciare l’Italia da uomo libero. Il Craxi del 1992, viceversa, si aggirava per le stanze della sede del suo partito, in via del Corso, sventolando la cartolina di Benigni, e chiedendo lumi su che significato potesse avere. Ciò la dice lunga sull’appannamento della sua ben nota perspicacia.

Il premio Oscar, vicino al Partito comunista, aveva colto che l’intervento di Bettino in Parlamento aveva preso di mira soprattutto il PCI per la questione dei finanziamenti sovietici che questo soggetto politico riceveva. La fine di Craxi è nota. Ritenendosi vittima di una giustizia «politica» si rifugiò ad Hammamet, in Tunisia, sottraendosi a processi e condanne. E là si spense, il 19 gennaio del 2000.

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