Gli stretti attraverso cui passano le rotte marittime transoceaniche sono in pericolo o in difficoltà. Uno sguardo d’insieme
Il commercio mondiale è a rischio. Sappiamo che i traffici mercantili su scala globale sono per i nove decimi affidati alle rotte marittime transoceaniche. Mai come in questa fase storica gli stretti attraverso cui passano tali rotte sono in pericolo o in difficoltà. Uno sguardo su scala planetaria offre infatti il seguente spettacolo. Primo. Il canale di Panamá, che connette l’Atlantico al Pacifico ed è ovviamente vitale per l’economia americana, soffre di mancanza d’acqua a causa del cambiamento climatico. Fenomeno evidentemente strutturale e che non può essere risolto in un tempo ragionevole. Questo determina un rallentamento dei transiti marittimi e la ricerca di rotte alternative, che per il momento non ci sono. A meno di non considerare il periplo del Continente americano via Capo Horn. Non esattamente il più economico e tranquillo dei percorsi.
Secondo. Attraversiamo l’Atlantico e ci troviamo di fronte a Gibilterra. Questo stretto, per noi europei il più importante di tutti, non a caso sotto tutela e sovranità britannica, è stato recentemente oggetto di minacce da parte iraniana. Un autorevole esponente delle Guardie rivoluzionarie (pasdaran) ha fatto sapere che il suo Paese sarebbe in grado di colpire Gibilterra.
Terzo, lo Stretto di Sicilia. Da quando la Turchia si è installata in Tripolitania e la Russia in Cirenaica, questo passaggio mediterraneo è diventato bollente. Si nota in particolare una crescente presenza navale russa, soprattutto sottomarina. Considerando il rilievo non solamente del transito di superficie ma anche degli snodi dei cavi Internet e dei collegamenti energetici, questo stretto spazio che divide il Continente europeo da quello africano è potenzialmente oggetto di intenzioni ostili. Il tutto aggravato dall’essere al centro dei principali flussi migratori dal cuore dell’Africa verso il cuore dell’Europa.
Quarto. La guerra fra Israele e Hamas si svolge a poche decine di chilometri dal Canale di Suez, snodo fra Mediterraneo e Mar Rosso. Abbiamo potuto constatare non troppi mesi fa come il blocco per un incidente di Suez possa colpire l’economia europea e globale. Se non si troverà rapidamente una soluzione alla crisi di Gaza, i riflessi per la sicurezza del canale sotto giurisdizione egiziana saranno notevoli. Tanto più che scendendo il Mar Rosso verso l’Oceano Indiano si passa da una zona di crisi e di guerra all’altra (Sudan, Eritrea-Etiopia, Yemen, Corno d’Africa).
Quinto, Bāb al-Mandab, ovvero il collo di bottiglia che lega il Mediterraneo allargato all’Oceano Indiano. Da un paio di mesi il transito delle grandi navi da e per il Mediterraneo è sotto schiaffo a causa degli attacchi degli huthi. In genere si tende a dipingere questo gruppo come una fazione ribelle, una delle tante che animano la scena mediorientale. Niente di più deviante. Si tratta di fatto di uno Stato, lo Yemen, che per l’essenziale è sotto il controllo di questa armatissima fazione locale. Apparentemente si tratta da parte yemenita di una reazione contro l’attacco israeliano a Gaza, ma questa è solo una parte della realtà. Più profondamente, gli huthi vogliono essere riconosciuti come potenza regionale dall’Arabia Saudita e dai Paesi del Golfo, contro cui conducono a intermittenza una vera e propria guerra a più dimensioni. La presenza di navi militari occidentali non può certamente risolvere una partita di tali dimensioni.
Sesto. Attraversiamo l’Oceano Indiano in direzione degli stretti malesi e indonesiani. In particolare Malacca e Lombok. Siamo all’imbocco dell’area del Mar Cinese Meridionale, teatro principale della tensione tra Stati Uniti e Cina. Qui americani e alleati locali ed europei hanno schierato consistenti forze aeronavali per impedire che Pechino assuma il controllo del passaggio fra Oceano Indiano e Oceano Pacifico. A ciò si aggiunga la crescita di movimenti jihadisti in Malesia e in altre parti della regione, che potrebbero sconvolgere i piani delle grandi potenze con azioni mirate contro i traffici tra Estremo Oriente, Africa ed Europa.
Settimo e decisivo, lo Stretto di Taiwan. Quella che Pechino considera una provincia ribelle da riportare a casa si trova all’incrocio tra Mar Cinese Meridionale e Orientale, equidistante dalla costa della Repubblica Popolare Cinese e da Giappone e Filippine, dove l’America ha schierato i propri contingenti militari più robusti e agguerriti nella regione. Xi Jinping continua a minacciare di risolvere il nodo taiwanese in un modo o nell’altro entro il 2049 e si muove di conseguenza. A questo punto Washington non può arretrare di un millimetro senza perdere la faccia nel teatro regionale e su scala mondiale. In una prospettiva di medio termine, inoltre, la tensione tra Giappone e Cina è destinata a crescere anche per il riarmo giapponese.
Ottavo e finale, la cosiddetta rotta nordica che potrebbe collegare l’Estremo Oriente all’America attraverso l’Oceano Artico su cui si affaccia la Russia. Questa rotta risulta di fatto bloccata per gran parte dell’anno dai ghiacci, però in via di rapida fusione. Molto lascia prevedere che nei prossimi decenni questo collegamento commerciale e strategico sarà uno dei massimi contenziosi geopolitici nel triangolo Cina-Russia-Stati Uniti, dove si gioca il futuro degli equilibri mondiali.
La crisi delle principali rotte marittime mondiali ha anzitutto un rilievo economico. I costi dei traffici marittimi per le principali economie mondiali sono destinati a crescere, insieme ai conflitti locali che infestano le aree prossime ai colli di bottiglia transoceanici. Per chi voglia farsi un’idea di come i famosi «pezzi di terza guerra mondiale» possano congiungersi, uno sguardo d’insieme a queste aree strategiche è il primo esercizio da fare. E per chi tiene a salvare la pace e con essa la salute dell’economia su scala mondiale, la libertà di navigazione resta il compito principale.