In ricordo ◆ Non si può ricordare Gigi Riva, scomparso lo scorso 22 gennaio, senza l’epica della penna di Gianni Brera
Ogni eroe degno di questo nome ha bisogno del suo cantore, altrimenti che eroe è? E se Gigi Riva (nella foto) è stato un eroe, il suo cantore è stato Gianni Brera, che l’ha battezzato «Rombo di Tuono», così come Omero (per tramite di Vincenzo Monti, suo traduttore magno) battezzò Achille «Piè Veloce». È curioso che, nel giorno della morte di Gigi Riva, il 22 gennaio scorso, tutti abbiano evocato Brera per l’arte onomaturgica, cioè per la capacità di inventare parole e soprannomi (dall’Abatino-Rivera a Bonimba-Boninsegna a Deltaplano-Zenga), dimenticando l’epica. Quella che il giornalista pavese, da par suo, riuscì a costruire intorno al «campeòn» di Leggiuno, «Gigirriva», come dicevano e dicono i sardi. Il fatto è che, per cogliere l’epica creata da Brera bisogna scomodarsi a leggere le sue cronache con pazienza, come fossero poemi antichi. Si può eccepire sull’eccesso di orgoglio padano, ma il gioanbrerafucarlo merita un’attenzione supplementare. Perché meglio di lui nessuno ha scritto di Riva, che per una settimana è stato sommerso di retorica, lui che in campo (e fuori) fu il contrario della retorica: essenzialità pura, potenza, scatto, tante sigarette e pochissime parole.
Dunque, non resta che aprire la Storia del calcio italiano di Brera per capire le «prodezze» (da «prode», cioè guerriero valoroso) di Gigi (e del Gioàn). Il quale Gioàn fu uno dei pochi, nell’estate 1969, a pronosticare lo scudetto al Cagliari (che sarebbe arrivato l’anno dopo), allenato da Manlio Scopigno, il «filosofo» e con un solo meridionale in squadra, Martiradonna. Quella squadra aveva ottenuto in regalo, quasi, dall’Inter nientemeno che Domenghini e Gori, il centravanti che avrebbe affiancato il «belluino», cioè Riva. Ed è qui che Brera comincia il suo poema omerico: «Riva – scrive – è nel fiore della sua prestanza atletica (…) nessuno riesce a battere a volo come lui, nessuno a rovesciarsi come lui em bycicleta, a staffilare da terra su calcio franco, a scattare, entrare, svellere». Svellere: sfido chiunque, nel giornalismo sportivo d’oggi, a usare quel verbo per Ronaldo o per Haaland. «Riva è il condottiero effettivo del Cagliari: il match-winner sicuro, talvolta il mattatore». Mattatore sa di teatro, ma sfido chiunque oggi a parlare di «mattatore» non dico in una cronaca di calcio, ma persino in una recensione teatrale. Parole desuete: svellere e mattatore. E parole nuove, come match-winner. E anche il raffinato «em bycicleta» è un gran bell’esotismo (lusitano), che non ti aspetti, ma non c’è di meglio per descrivere plasticamente lo spericolato gesto atletico dell’attaccante che si rovescia per aria all’indietro dando un repentino colpo da ciclista per imprimere il massimo di forza alla palla presa al volo. Da notare che in quell’espressione c’era la consapevolezza che colui il quale aveva provato con successo la cosiddetta «rovesciata em bycicleta» era stato, nel 1932, un attaccante di Rio de Janeiro, Leônidas da Silva.
Le laudi breriane per Rombo di Tuono non sono soltanto tecniche. Intorno al campione c’è un paese, anzi un’isola, la Sardegna, che impazzisce per lui: «I pastori vegliano sul gregge tenendo la radiolina all’orecchio durante le trasmissioni della domenica». Il vecchio stadio, in cui affluivano i tifosi dalle città e dai paesi più lontani dell’isola, era dedicato ad Amsicora, che Brera chiama «il Vercingetorige locale»: era un militare e latifondista sardo-punico che nel 215 a.C. guidò una rivolta antiromana. Con lo scudetto quello stadio primonovecentesco fu sostituito da un altro stadio, più moderno, il Sant’Elia, che cadde presto in disuso: «L’opinione pubblica preme perché un nuovo stadio venga costruito per ospitare degnamente i campioni», scrive Brera in veste di sociologo e profeta, «la situazione economica è già avviata a modificarsi in peggio ma nessuno è disposto a tenerne conto». Aveva ragione. Anche il Sant’Elia sarebbe caduto troppo presto in disuso.
Facendo di tutto per trattenere il suo gioiello, aggiungeva il Gioàn, il Cagliari «pretende di tenersi una Rolls Royce senza avere gli spiccioli per la benzina». In realtà, si sa che sarebbe stato lo stesso «Gigirriva» a resistere alle sirene del continente (soldi a palate dalla Juventus dell’Avvocato), per restare fedele alla Sardegna, che anche per questo ne fece più che un simbolo: un monumento vivente. La Sardegna l’aveva adottato da quasi sconosciuto figlio di un parrucchiere, poi sarto, poi operaio morto sul lavoro in una fonderia quando Luigi aveva nove anni, costringendo il ragazzo a crescere in tre successivi collegi religiosi per poveri. Anche sua madre, che lavorava in una filanda, lo lasciò presto, e Gigi fu tirato su dalla sorella Fausta. Da quelle tragedie precoci si portò dietro un coraggio e una forza fisica da mettere paura e una malinconia depressiva che sarebbe esplosa a trent’anni. I compagni lo chiamavano «Hud il selvaggio», perché faceva sempre di testa sua, era solitario e indomabile come il personaggio di Paul Newman, ma in campo era indiscutibilmente Rombo di Tuono: se la partita non ingrana, scrive Brera, «aspetta fremendo l’intervallo per spronare e talora minacciare i compagni meno disposti a lottare». Quasi sempre è lui a spuntarla. Ecco come fece a spuntarla in una partita decisiva nell’anno dello scudetto: «Si scaglia contro tre avversari… parte in fulmineo slalom verso il gol… esplode una randellata omicida da fuori… e completa la sua folgorante giornata tuffandosi a incornare con irresistibile impatto…». Un eroe irresistibile irresistibilmente cantato.