Donald Trump e le sue posizioni isolazioniste potrebbero tornare in sella con le prossime elezioni presidenziali.Cosa succederà all’Alleanza atlantica e quale futuro è realistico immaginare per la sicurezza europea?
Tra un anno l’America sarà governata da Donald Trump (nella foto a destra) e annuncerà la sua uscita dalla Nato? Che lo faccia o meno, quale futuro è realistico immaginare per la sicurezza europea? Gli ottimisti a oltranza si aggrappano al fatto che per uscire dal Trattato Atlantico non basta una decisione del presidente, occorre un voto del Congresso di Washington con una maggioranza qualificata dei due terzi. Vero. Ma la credibilità della difesa Nato contro un’aggressione russa non è legata solo al testo di quel trattato. Se un presidente degli Stati Uniti solleva dei dubbi sulla volontà di rischiare le vite dei propri soldati in una terza guerra mondiale per difendere la Lituania o l’Estonia o la Polonia, l’articolo 5 della Nato perde credibilità e agli occhi di Vladimir Putin quel deterrente diventa carta straccia. Inoltre Trump non è l’unico problema: dietro di lui bisogna osservare l’evoluzione dell’opinione pubblica americana. Anche a sinistra cresce l’isolazionismo, ribattezzato pacifismo.
Nei sondaggi Trump è in leggero vantaggio su Joe Biden, nella sfida diretta tra i due che al momento rimane lo scenario più probabile. Trump di recente ha «regalato» a Putin, per così dire, quei Paesi europei che pur appartenendo alla Nato non mantengono gli impegni presi sulle spese per la difesa. In sostanza ha detto che questi Paesi – tra i quali figura l’Italia, sempre inadempiente rispetto alla promessa di dedicare almeno il 2% del PIL alle forze armate – non potranno contare che sia l’America a difenderli; la Russia se li prenda pure. Può succedere di tutto nei prossimi mesi, ovviamente anche sul piano giudiziario, però anche chi continua a considerare improbabile un Trump 2 è costretto a esaminarlo come una ipotesi.
La Nato ha garantito la pace e la sicurezza degli europei per tre quarti di secolo. Non esisterebbe senza gli Stati Uniti, o diventerebbe una pallida caricatura. Può sopravvivere a una loro uscita; o con un’America defilata e riluttante? L’uscita dalla Nato segnerebbe una rottura clamorosa con gli ultimi 75 anni di storia. Chiuderebbe anche con tutta la politica globalista inaugurata da Franklin Delano Roosevelt quando portò l’America a intervenire nel secondo conflitto mondiale per sradicare i nazifascismi dall’Europa. Sarebbe un ritorno ad un’altra politica, che pure ebbe lunga tradizione e antenati nobili: l’isolazionismo fu dominante per lungo tempo dalla fondazione degli Stati Uniti in poi, con eccezioni come la presidenza del primo Roosevelt (Theodore) e di Woodrow Wilson nella Prima guerra mondiale. Però le radici dell’isolazionismo americano sono profonde.
L’uscita degli Stati Uniti dalla Nato viene evocata diplomaticamente con uno slittamento linguistico. Da tempo immemorabile i presidenti e i Congressi Usa invocano un «burden-sharing» più equilibrato: una ripartizione degli oneri di finanziamento della Nato più bilanciata con gli alleati europei, molti dei quali si comportano come dei parassiti della difesa, felici di vivere al sicuro sotto l’ombrello protettivo americano, ma riluttanti a finanziare delle forze armate adeguate. Fu ai tempi di Barack Obama che il tema del «burden-sharing» venne adottato come un impegno formale e ufficiale: tutti gli Stati membri dell’Alleanza atlantica promisero solennemente di dedicare alla sicurezza almeno il 2% del PIL nazionale. L’Italia e altri non l’hanno mantenuta neppure dopo l’invasione della Russia in Ucraina; la Germania ci sta riuscendo da poco. Molti americani, non solo nelle alte sfere ma anche nell’opinione pubblica, si sentono presi per i fondelli. A maggior ragione se alcuni di quei Paesi che vivono al sicuro da parassiti sono pronti a criticare «l’imperialismo Usa». Trump è solo uno dei tanti presidenti Usa che hanno giudicato deplorevole questo stato di cose.
Ormai Trump non si limita a rilanciare il tema del «burden-sharing». Fa un passo più. La nuova parola-chiave è «burden-shifting»: dalla suddivisione o condivisione degli oneri si passa allo spostamento o trasferimento di questi oneri. L’America se ne andrebbe dal Vecchio Continente e il conto delle spese per difendersi lo passerebbe agli europei. Trump è convinto che gli Stati Uniti non abbiano dei veri interessi vitali da difendere con una presenza militare costosa e ingombrante in Europa. Questa visione è contestabile ed esistono robusti argomenti di segno opposto. L’accumulo di interessi materiali investiti nella relazione transatlantica è notevole e ci sarà un forte vento contrario rispetto alla scelta di abbandonare l’Europa al suo destino. Un’alternativa all’uscita secca dalla Nato, di cui discutono alcuni think tank repubblicani, è lo scenario della «dormant Nato», una Nato dormiente. Questo significa che gli Stati Uniti riporterebbero a casa gran parte o la totalità dei propri militari di stanza in Europa, e trasferirebbero sugli alleati europei buona parte degli oneri e responsabilità per la loro difesa (con un’operazione di «burden-shifting»). L’Alleanza atlantica resterebbe in vigore, sì, ma come un patto scritto sulla carta, non concretizzato dalla presenza di basi militari e decine di migliaia di soldati Usa sul suolo europeo. Sarebbe l’America a diventare così un alleato dormiente, con la promessa di intervenire solo in caso di attacco… Quanto credibile?
Lo scenario è meno traumatico dell’uscita dalla Nato. Tuttavia lo shock per gli europei sarebbe spaventoso: per 75 anni non hanno mai dovuto attrezzarsi a difendersi da soli da un attacco russo e a combattere per primi contro l’invasore «nell’attesa» che arrivino rinforzi da oltreatlantico. Altro che 2% del PIL per le spese militari! Questa ipotesi ricorda la terribile posizione in cui si trovò la Gran Bretagna di Winston Churchill nei primi due anni della Seconda guerra mondiale, quando fronteggiava praticamente da sola l’offensiva della Germania nazista, sperando che l’America sarebbe venuta in suo soccorso. L’intervento americano tra l’altro arrivò solo perché il Giappone commise il fatale errore di attaccare gli americani sul loro territorio, a Pearl Harbor nel dicembre 1941. Nell’atmosfera di presunto «pacifismo» che domina oggi in Europa, il trauma di un semi-abbandono dagli Stati Uniti spingerebbe verso l’eroismo inglese del 1940, oppure sarebbe l’inizio di un «liberi tutti», e una corsa di vari leader a ri-accreditarsi come volenterosi vassalli al servizio di Putin e Xi Jinping? Riguardo alla dimensione bipartisan del neo-isolazionismo Usa, è interessante la fotografia sullo stato d’animo dell’America che traspare da un’indagine autorevole, divulgata in occasione di un appuntamento tradizionale del partito repubblicano (ma non trumpiano): il Reagan National Defense Forum. L’indagine va ben oltre il tema atlantico, si estende a Israele e Taiwan. Sotto i trent’anni di età, solo il 29% degli americani ritiene che l’America «debba essere più impegnata negli affari internazionali e assumere un ruolo guida nel mondo», mentre lo pensa il 60% degli ultrasessantacinquenni.
I giovani sono anche due volte più numerosi degli anziani a dirsi contrari a qualsiasi aumento delle spese per la difesa. Questo si riflette – all’ennesima potenza – nella loro scarsa propensione a indossare una divisa e intraprendere una carriera militare. A novembre 41 milioni degli aventi diritto a votare saranno giovani della Generazione Z. La loro partecipazione elettorale di solito è inferiore a quella degli anziani, ma comunque rappresentano un elettorato molto importante. L’atteggiamento antiamericano e antioccidentale di tanti giovani di sinistra, paradossalmente viene «captato» meglio dall’isolazionismo di Trump che non dalla politica atlantista di Biden. È uno di quei casi in cui le due ali estreme dell’arco politico si ricongiungono.