Occhi puntati su Nikki Haley, l’alternativa repubblicana a Donald Trump, e la vicepresidente Kamala Harris che cerca il riscatto
Due anziani contendenti con dietro due donne che sanno di avere in mano, nel bene e nel male, un’arma molto potente: il futuro. Una, Nikki Haley, sta inanellando sconfitte come fossero vittorie, perché sa che la posta in gioco è molto più alta delle elezioni americane del 2024 e che consolidare il suo ruolo di alternativa a Donald Trump nel Partito repubblicano prima o poi pagherà. L’altra, Kamala Harris, sta cercando di liberarsi dall’etichetta di «delusione» che le è stata appiccicata dopo quattro anni di una performance davvero opaca come vicepresidente di Joe Biden, che però ha 81 anni, perde colpi e ha recentemente dichiarato di aver parlato con François Mitterrand, morto da decenni. Il ruolo di Harris è destinato a rafforzarsi, tutti sono concordi nel dire che la sua posizione nel ticket sarebbe più importante rispetto a quella di un nomale vicepresidente e che la sua figura va aiutata a trovare risalto. Peccato che negli ultimi tre anni e mezzo non abbia dimostrato di avere né doti politiche, né doti di leadership. Al di là del suo essere la prima afroamericana, la prima asiatica e la prima donna a ricoprire il ruolo, di lei restano solo la copertina di «Vogue» in cui indossava fieramente delle All Stars e una serie di passi falsi.
Anche Nikki Haley ha molti primati: prima governatrice donna e non bianca, eletta in Carolina del Sud dov’è nata nel 1972 e cresciuta in una famiglia di immigrati indiani – un biologo e un’imprenditrice sikh, conservatori, tradizionalisti, benestanti – è riuscita a farsi largo nel Tea Party repubblicano nonostante su alcuni temi, come la bandiera confederata o l’immigrazione, sia poco in linea con i valori del partito. Contabile di formazione, è stata ambasciatrice presso le Nazioni Unite durante i primi due anni dell’amministrazione Trump, uscendone con una reputazione accresciuta e una fama internazionale per la sua retorica efficace, decisa. Con il presidente all’epoca andava d’accordo, anzi, ha rievocato la loro collaborazione in termini molto positivi, ma dopo l’assalto a Capitol Hill per lei le cose sono cambiate e presentarsi come la risposta ragionevole a un politico uscito di senno è diventata la sua missione. È giovane laddove i suoi concorrenti sono anziani, è affidabile laddove uno è un criminale con tanto di condanne. «So che il 40% non è il 50%, ma so anche che il 40% non è un piccolo gruppo», ha detto dopo essere stata battuta anche nel suo Stato.
Effettivamente se la base è ancora tutta per Trump, i finanziatori del partito non sono così sicuri di voler scommettere su un candidato su cui pendono problemi legali di ogni tipo. Il brand «adulto nella stanza» di Haley è incentrato sulla differenza rispetto al suo rivale e sarebbe folle sovrapporsi a lui o cercare di imitarlo, anche perché rendendosi opposta e complementare si garantisce un futuro, anche se ovviamente lo nega. «Non sento il bisogno di baciare l’anello. E non ho paura della vendetta di Trump. Non sto cercando niente da lui. Il mio futuro politico non è una preoccupazione», ha detto. La competenza e il suo profilo da conservatrice vecchio stampo la mettono nella posizione di poter intervenire qualora i problemi di Trump con i giudici lo costringessero a un passo indietro. Nata Nimrata Nikki Randhawa, si è convertita al cattolicesimo dopo il matrimonio con Bill Haley, a cui ha addirittura fatto cambiare nome: ora si chiama Michael. Ha deciso di candidarsi dopo aver sentito parlare Hillary Clinton ma non l’ha votata; i detrattori la descrivono come determinata e calcolatrice, ma ha una chiarezza e un’attenzione ai principi che la fanno apparire affidabile, anche se su Trump ha cambiato idea. «Lui è tutto quello che insegniamo ai nostri figli a non fare all’asilo», ha detto, mentre l’esercito di trolls fedelissimi all’ex presidente la attacca con una violenza mai vista e con argomenti tristemente prevedibili. Lei scrolla le spalle, sorridendo all’idea che alla Casa Bianca debba andare per forza un ottantenne.
Kamala Harris ha un problema molto diverso: lei il ruolo ce l’ha già e potrebbe averlo ancora più grande, essendo la vicepresidente di un ottantunenne che spera di restare in carica per altri quattro anni. Solo che la sua presenza rischia di essere un peso e non un asset per Biden, che dopo una serie di mosse maldestre all’inizio – un’intervista catastrofica nel 2021 e un fallimento assoluto delle sue costose politiche di contenimento «alla radice» dell’immigrazione – l’ha relegata a un ruolo quasi solo cerimoniale, che da una parte le sta stretto ma che dall’altro non riesce a rivestire in maniera convincente. Il suo modo di parlare è particolarmente criticato, i suoi discorsi sono definiti «insalate di parole» senza senso e vacue, sebbene venga da una carriera legale di altissimo livello – era procuratrice generale della California – e venga dal Senato, dove è stata la prima afroamericana. Il fatto che abbia rinunciato ad accostare il suo nome a politiche e misure legate al suo essere donna di una minoranza etnica non ha certo contribuito a scaldare la sua figura, ma il 39% degli americani ha una buona opinione di lei e Biden non può liberarsene senza alienarsi le simpatie delle donne e delle minoranze.
Dal suo staff trapela un senso di frustrazione per quello che viene visto come un tentativo di metterla a tacere, di non lasciarle spazio e anche dalle interviste emerge una certa superbia nello spiegare le ragioni della sua impopolarità. Ha detto di trovare poco avvincente «parlare di banalità» e di preferire l’idea di «decostruire una questione e parlarne in un modo che possa innalzare il discorso pubblico ed educare il pubblico». Sarebbe commendevole, non fosse che Kamala Harris non ha l’istinto politico, non trasforma le cose in politica, in campagne. Però, per come stanno le cose ora, Biden non può fare a meno di lei e in tanti sostengono sia necessario darle più spazio per far rivivere quell’emozione che suscitò la sua elezione da donna delle prime volte.