Quel rifiuto che salva l’anima

Alla vigilia del 7 ottobre scorso le tensioni causate dall’entrata in carica dell’ultimo Governo Netanyahu avevano condotto la società ebraica sull’orlo di una guerra civile. A poche ore dai disumani massacri di Hamas, tuttavia, la società si è per lo più ricompattata intorno a uno dei principali pilastri identitari nazionali: l’esercito. Oltre 360 mila riservisti, circa il 4% della popolazione, hanno infatti risposto affermativamente alla chiamata dell’IDF, le Forze di difesa israeliane, in quella che è stata definita la più grande mobilitazione dalla Guerra del Kippur del 1973. Nello Stato ebraico il servizio militare è obbligatorio per entrambi i sessi. Al termine della scuola superiore gli uomini sono tenuti ad arruolarsi per 32 mesi e le donne per 24, dopodiché possono essere mobilitati rispettivamente fino al compimento del 40° e del 38° anno d’età con alcune eccezioni. Salvo gli arabi israeliani che sono automaticamente esentati e gli ultraortodossi che dimostrano di frequentare una scuola talmudica, ottenere l’esenzione dal servizio militare in Israele non è affatto semplice. In assenza di sofisticati sotterfugi, infatti, si viene dichiarati «non idonei» solo dopo accurati controlli medici che evidenziano patologie fisiche o mentali. Raramente vengono accolte richieste per motivi di pacifismo o di etica.

Tuttavia, benché il Governo e l’esercito cerchino di sminuirne l’entità e la portata politica, un altro fenomeno che va crescendo tra le fila dei giovani israeliani è quello degli obiettori di coscienza. I coraggiosi che rifiutano di arruolarsi vengono definiti «refùsnikim», parola originariamente utilizzata per indicare gli ebrei a cui veniva negato il diritto di emigrare in Israele dal blocco sovietico. La maggior parte di di loro esce dalle fila degli attivisti politici, come quelli che alle manifestazioni del sabato sera aspettano la folla all’angolo fra Via Kaplan e via Leonardo da Vinci, per ricordarle che «non c’è democrazia con l’occupazione». Convinti che la soluzione del conflitto in Medio Oriente non debba passare dalle armi, bensì dalla politica, questi ragazzi si oppongono alle violente politiche di oppressione e apartheid che Israele mette in atto nei confronti del popolo palestinese. Ma mettere in discussione l’intero sistema dove sono nati e cresciuti è una scelta sofferta che, nella migliore delle ipotesi, comporta la riprovazione dei familiari e dei compagni di scuola, e conseguenze che si estenderanno anche alla ricerca di lavoro e alla sfera sociale. Ma soprattutto ad attenderli vi è la prigione militare. La prima condanna da scontare è di solito di circa 20 o 30 giorni, ma verrà estesa se, dopo il rilascio, si riconferma la decisione. A sostenere gli obiettori di coscienza dal punto di vista morale e legale ci pensa il gruppo di Mesarvòt, in ebraico «quelle che rifiutano», importante ONG che conduce campagne informative e di sensibilizzazione sul servizio militare (sulla pagina Instagram dell’organizzazione trovate diverse foto e video).

Fino a poco tempo fa i compagni di cella dei «refùsnikim» erano per lo più prigionieri politici palestinesi, ma dall’inizio dell’ultima guerra in Israele l’intera sfera politica è diventata molto più violenta e aggressiva, si respira aria di regime e anche gli oppositori ebrei vengono perseguitati e arrestati con estrema facilità. Nel nuovo clima gli obiettori vengono additati dalla società come traditori della patria, sostenitori di Hamas, nazisti e antisemiti, ma pochi pensano seriamente di lasciare il Paese, e preferiscono sacrificarsi nella speranza di interrompere questo ciclo di violenza che genera solo altra violenza. Così, dopo Tal Mitnick, diciottenne condannato dal tribunale militare il 2 gennaio per aver espresso il proprio rifiuto, il 25 febbraio è stata la volta della coetanea Sofia Orr. «Sono qui a rifiutare perché la guerra non ha vincitori», ha detto con fierezza quest’ultima parlando al megafono prima di venire giudicata e detenuta a sua volta. «Voglio promuovere la pace e dimostrare che il cambiamento è possibile. Nella pace tutti saremo vincitori», ha aggiunto. Rifiutare di arruolarsi e prendere parte attiva alla guerra e all’occupazione è un atto che nell’Israele di oggi può comportare grande solitudine, ma, come ha affermato con grande sensibilità Iddo Elam, intervistato da Francesca Mannocchi per «Propaganda Live», «protestare è l’unico modo per impedire alla violenza di cui siamo spettatori di corromperci l’anima facendoci perdere ogni traccia di umanità».

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