Biden vs Trump: un’elezione senza precedenti

La corsa alla Casa Bianca diventa una «gara a non perdere». Il verdetto del Supermartedì (o Super Tuesday) non è interessante per la conferma di un dato deprimente ma scontato: che i due candidati il 5 novembre saranno, salvo colpi di scena, proprio Joe Biden e Donald Trump. Quello lo sapevamo già, visto che Trump da tempo godeva di un vantaggio enorme in campo repubblicano, mentre il fronte democratico non ha osato sfidare la tradizione che prevede un appoggio pressoché automatico e incondizionato del suo partito al presidente che vuole ricandidarsi. Il Supermartedì è interessante per un’altra ragione: ha reso ancora più evidenti i rischi di emorragie di voti sia da una parte che dall’altra.

Nikki Haley è stata una delusione per tutti coloro che l’avevano appoggiata come ultimo baluardo della restaurazione, cioè per tornare a un partito repubblicano «normale», nell’alveo della tradizione di Ronald Reagan e dei Bush padre e figlio. Non è riuscita nella sua missione proprio perché aveva dietro di sé un bel pezzo di establishment conservatore. La nuova base repubblicana odia l’establishment, dal quale si sente disprezzata. Il nucleo duro del trumpismo è fatto di non laureati (il 60% della popolazione americana) che si sentono i nuovi paria, trattati come una razza inferiore proprio da quelle élite progressiste che si proclamano anti-razziste. La classe operaia americana vecchia e nuova – dai metalmeccanici dell’automobile alle badanti, dai fattorini delle consegne ai magazzinieri di Amazon, dai camionisti ai poliziotti e guardie giurate – si fida di Donald Trump per due ragioni. La prima è che lo ha visto all’opera e pensa che mantiene le promesse (dazi contro la Cina, Muro alla frontiera messicana). La seconda è che solo un duro come lui, insolente e aggressivo, può tener testa all’arroganza delle élite che trattano gli operai come dei deplorevoli bifolchi.

Nikki Haley non ha mai parlato a questa base operaia ma si è comunque conquistata una minoranza di elettori alle primarie del Grand Old Party, che a seconda degli Stati si situa tra il 10% e il 20% (più qualche isolata vittoria, in Stati con pochissimi delegati). Ora che lei si è ritirata, quanti dei suoi sostenitori decideranno di starsene a casa il 5 novembre, o addirittura di votare per Biden, o per un candidato indipendente? Nell’ipotesi estrema, che tutti i sostenitori di Nikki Haley appartengano alla categoria dei «never Trump», le chance di quest’ultimo di tornare alla Casa Bianca precipiterebbero. Ricordo che le ultime elezioni americane si sono sempre giocate sul filo del rasoio, bastano spostamenti minuscoli di elettori, soprattutto negli Stati in bilico, per decidere le sorti della sfida in un senso o nell’altro. Gli insulti a Nikki Haley («cervello di gallina») da parte di Trump non sono una partenza incoraggiante per recuperare i suoi elettori tra otto mesi. In passato l’elettorato repubblicano fu spesso descritto come più disciplinato di quello democratico, cioè capace di dimenticare le risse interne e ricompattarsi per il voto finale. È una delle ragioni per cui la destra, pur essendo minoranza in numeri assoluti, è spesso riuscita ad essere sovrarappresentata. Vedremo se il fenomeno Trump ha distrutto anche questa antica caratteristica del Grand Old Party.

C’è un’altra categoria di elettori che può impedire un Trump 2. Sono gli indipendenti centristi, spesso indecisi fino all’ultimo: su costoro può avere qualche impatto l’accumulo di problemi giudiziari. Sono cittadini moderati, pragmatici, probabilmente insoddisfatti dell’azione di governo di Biden; però spaventati all’idea di mandare alla Casa Bianca qualcuno che passerà i prossimi quattro anni a litigare con i tribunali. Il «centro mobile» dell’elettorato, quello che non ha una fede politica precisa e può spostarsi di volta in volta, è diventato sempre più piccolo in una geografia polarizzata, ma può ancora fungere da ago della bilancia. Biden ha lo stesso problema: per fare il pieno di voti deve anzitutto evitare un fuggi fuggi. Un segnale d’allarme è venuto dal fenomeno degli «uncommitted» durante le primarie: elettori democratici che, non potendo designare un candidato diverso da Biden per mancanza di alternative, si sono comunque presentati ai seggi elettorali, e lì hanno messo nell’urna una scheda che è qualcosa di più di un’astensione. Dichiararsi «uncommitted» vuol dire esplicitare il rifiuto del candidato ufficiale, Biden, e la disponibilità a votare per altri. È una manifestazione molto forte di dissenso. Molti degli «uncommitted» appartengono a quelle constituency della sinistra che contestano Biden per il suo sostegno a Israele nell’offensiva su Gaza. Si tratta di tre categorie a rischio, elettori democratici sì, ma all’opposizione sulla politica estera della Casa Bianca. In genere appartengono a uno di questi tre gruppi: la sinistra giovanile molto forte nei campus universitari; le frange radicali della comunità Black; gli immigrati arabi.

È una coalizione che può costare cara a Biden. Tanto più che il 5 novembre queste tre categorie di elettori hanno un’alternativa, anzi almeno due. Tra i candidati indipendenti figura Robert Kenedy Jr., transfuga del Partito democratico che appartiene alla più blasonata dinastia della sinistra americana. Kennedy ha un cognome che gli dà enorme visibilità a priori; ha un passato di paladino dell’ambientalismo radicale fino a diventare un anti-vax; contesta Biden su quasi tutto attaccandolo da sinistra su temi domestici ma è vicino alle posizioni filo-putiniane di Trump sull’Ucraina. Cornell West, anche lui candidato indipendente, è un afroamericano di estrema sinistra con un seguito negli ambienti universitari e nelle frange radicali dell’anti-razzismo Black. Sia Kennedy sia West possono catturare voti giovanili ed etnici, danneggiando più Biden che Trump.

Questa elezione viene definita «senza precedenti» per molte ragioni. I due principali candidati sono i più anziani nella storia degli Stati Uniti. E non si era mai verificato in tempi moderni uno scontro tra due ex-presidenti, ambedue ai vertici dell’impopolarità nel Paese. Né si ricorda una elezione così inquinata da vicende giudiziarie, in parte legate a un evento anch’esso anomalo come l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Un’altra peculiarità è il ritorno di importanza della politica estera. Di quest’ultimo non si può dire che sia senza precedenti. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, durante il conflitto del Vietnam e il secondo intervento militare in Iraq, i temi internazionali ebbero un peso. In generale però vale l’opposto, nelle presidenziali americane la politica estera viene relegata sullo sfondo mentre risultano decisivi i temi domestici. Stavolta abbiamo due effetti da tenere in considerazione. A destra, coloro che nella prima fase delle primarie hanno votato per Nikki Haley appartengono a una tradizione repubblicana che non può certo dirsi russofila. Per loro tutto ciò che Trump va dicendo su Putin e sull’Ucraina è inaccettabile. Una ragion di più perché Trump possa subire un astensionismo da destra in quella componente «classica» del Grand Old Party.

A sinistra il fossato si allarga sempre di più tra una componente filo-israeliana, e in particolare la comunità dei Jewish-American progressisti; e dall’altra parte tutta la constituency filo-palestinese che ha allargato molto le sue dimensioni. Anche questa è una novità. Non solo il fatto che la politica estera divide l’elettorato (potenziale) di Biden; ma che questa divisione arriva a mettere in discussione un allineamento Usa-Israele che era sopravvissuto a molte crisi bilaterali dalla Guerra dei Sei Giorni (1967) a oggi.

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