Impunità è una parola dal suono pulito. La pronunci («im-pu-ni-tà») e scorre via veloce. Sarà per questo che finiamo con l’accettarla come una realtà naturale e automatica, un dato di fatto che c’è e basta, come l’aria un po’ tossica che respiriamo rassegnati, convinti di non poter far nulla per evitarla. Sbagliato.
Non mi riferisco agli impuniti delle Repubbliche delle banane e dei pregiudicati al potere, come in Pakistan (ne parlava Francesca Marino in un articolo apparso su «Azione» la settimana scorsa), o in Somalia, in Venezuela e in Siria, i tre Paesi in fondo alla classifica degli Stati meno corrotti del mondo di Transparency International 2023 (il più virtuoso è la Danimarca; la Svizzera si piazza sesta). Né penso alle dittature come la Russia di Putin, la Corea del Nord di Kim Jong-Il o ai regimi opachi come l’Arabia Saudita di Mohammad bin Salman. Da sempre l’«uomo forte al potere» è un impunito per definizione e chi gli rinfaccia le sue colpe fa la fine di Navalny. Con questi, eroismo a parte, c’è poco da fare.
Parlo di impunità nei Paesi democratici dove tra i tanti scandali tematizzati nel dibattito pubblico, coi politici a indice perennemente teso contro il nemico esterno di turno (l’immigrato o il fascista, le imprese o lo Stato, gli anarchici o la polizia…), pochissimi si occupano del potere corrotto che preserva sé stesso invece di farsi da parte.
Già mi irritano, nel privato, i capitani d’industria che prima fanno affondare le proprie aziende e poi, dopo aver mandato sul lastrico moltitudini di poveracci, se ne vanno nella bambagia dei bonus a molti zeri, licenziati sì, ma a peso d’oro, a siderale distanza dal mondo reale di chi paga pegno per ogni minimo sgarro. Ma più ancora mi indignano i politici che quando sbagliano, invece di togliere il disturbo e sparire, s’atteggiano a vittime della propaganda e trasformano magicamente il proprio torto in strapotenza elettorale. Più processi gli fanno, più consensi raccolgono.
Prendiamo Donald Trump. Secondo la Corte suprema Usa quest’uomo resta eleggibile malgrado l’appoggio ai forsennati che hanno assediato Capitol Hill il 6 gennaio 2021, una delle pagine più desolanti della storia della democrazia. Intendiamoci, le sentenze vanno rispettate anche quando c’è il fondato sospetto che l’accusato se la cavi perché – a differenza della stragrande maggioranza degli altri umani – può pagare i legali più cinici e capaci d’America o può contare su una Corte suprema amica. E uscire immacolato dalle accuse di frode, golpe elettorale, molestie sessuali e sottrazione di documenti top secret. Bello che in uno stato di diritto valga la presunzione di innocenza. Magnifico che le leggi siano garantiste e non forcaiole, evita tragici errori giudiziari. Ma la politica, nel senso alto di governo della collettività (la Polis greca) e di ricerca appassionata del bene comune, dovrebbe possedere anche gli anticorpi della decenza e della dignità. Non pretendiamo competizioni elettorali tra anime immacolate, ma che siano quanto meno inaccessibili agli squali e agli spregiudicati. Non so voi, ma io un politico sotto procedimento penale, rappresentasse anche la quintessenza del mio pensiero, non lo voterei per principio.
Se non interviene l’autocoscienza a frenare i politici maneggioni, deve farlo il cittadino col potere del proprio voto alle urne. Come elettori, qui come in America, non dobbiamo limitarci a votare per chi rappresenta meglio i nostri interessi, ma per chi lo fa al di sopra di ogni ragionevole sospetto.