L’ora delle ombre. Arriva anche per i guerrieri di pietra nascosti dietro la porta cigolante di un piccolo museo dove il buio della sera confonde volti, spade, armature e drakkar, le sottili navi vichinghe scolpite su bassorilievi mangiati da secoli di venti e tempeste. Di molti di loro, il nome forse lo sa solo il vento che sibila fuori mentre nuvole basse cariche di pioggia scivolano veloci sul mare impregnando di umidità le lapidi di pietra scura del Reilig Odhráin, il cimitero di Oran, in un buio da confine del mondo popolato di fantasmi da saga gaelica.
Qualche piccola spiaggia bianca, un paio di barche di pescatori ancorate al largo, la lunga fila di cottage di Baile Mór – unico microscopico centro abitato – allineati lungo la strada che finisce nel molo dove il solo colpo di vita è l’arrivo di un piccolo ferry poco più grande di un bus dove tutti si conoscono e guardano straniti chi non è di queste parti.
Iona può sembrare una delle innumerevoli isolette sparpagliate al largo della costa occidentale scozzese, ma questo particolare luogo non è da sottovalutarsi poiché è stato testimone di una storia che ha segnato in modo indelebile non solo la Scozia ma gran parte dell’Europa settentrionale. Chaluim Cille, l’«isola di Columba» in gaelico, è la chiave d’accesso a un passato da tragedia shakespeariana, in senso letterale perché qui sarebbero sepolti anche il vecchio re Duncan e il suo assassino Macbeth, almeno secondo la tradizione, perché tracce certe non ne sono mai state trovate.
In compenso, secondo un documento del 1549, le pietre di basalto che lastricano l’antica Strada dei Morti avrebbero visto passare i cortei funebri di sessanta sovrani, per la precisione quarantotto scozzesi, otto norvegesi e quattro irlandesi. Tutti sepolti su questo grumo di rocce lungo meno di sei chilometri e largo meno di due piantato oltre il Sound of Iona che separa Iona da Fionhport all’estremo occidente dei morbidi paesaggi della vicina isola di Mull, uno stretto braccio di mare di un blu quasi nero capace di trasformarsi in una brutta bestia quando il vento gonfia onde che hanno preso la rincorsa da Terranova.
Tutto iniziò su una piccola spiaggia vicina alla microscopica Càrn Cùl ri Éirinn, la «Collina che volta le spalle all’Irlanda» da cui provenivano tredici monaci che in un imprecisato giorno dell’anno di grazia 563 sbarcarono da un curragh, uno di quei precari battelli di legno e pelli di vacca con cui per secoli gli irlandesi scorrazzarono sulle onde dell’Atlantico. Alla loro testa c’era uno dei più famosi monaci del suo tempo, Colm Cille più conosciuto come San Columba di Iona, costretto all’esilio da una torbida e sanguinosa vicenda che probabilmente poteva capitare solo in Irlanda. Nata nel modo più improbabile, ovvero con un plagio letterario, vide Columba trascinato in giudizio dal collerico e altrettanto famoso San Finnian con l’accusa di avergli copiato di nascosto un libro di salmi e preghiere. Cosa sia successo dopo è avvolto dalle nebbie di una storia remota in cui le uniche certezze sono la salomonica sentenza del saggio Alto Re d’Irlanda dell’epoca Diarmuid: «A ogni mucca il suo vitello, a ogni libro la sua copia», e la cosiddetta «Battaglia del Libro» a Cul Dreimhne in Donegal, considerata la prima guerra per il diritto d’autore, vinta da Columba con una strage di oltre tremila fedeli di San Finnian o, secondo un’altra versione, di re Diarmud.
Un po’ troppi anche per i bellicosi standard del cristianesimo irlandese dell’epoca, soprattutto perché non si trattava di pagani, e Columba decise di cambiare aria, ufficialmente per penitenza o più probabilmente per sfuggire a una scomunica e a inevitabili vendette. Così partì con un gruppetto di seguaci in cerca di un luogo «da cui non si potesse vedere l’Irlanda» per convertire un numero di pagani equivalente ai morti che aveva provocato.
Sbarcarono a Iona, probabilmente un’isola sacra già dall’Età del Ferro, e sentirono l’impellente bisogno di santificare la nuova patria con il sacrificio di Oran, il più anziano di loro, un imbarazzante episodio probabilmente legato ad antichi rituali celtici che la tradizione cristiana ha pietosamente trasformato in sacrificio volontario. Con un finale, imprevisto, il miracoloso ritrovamento qualche giorno dopo dell’anziano monaco ancora in vita, prontamente risolto con la sepoltura stavolta definitiva del redivivo, accusato di avere detto a chi lo aveva disseppellito che l’Inferno «non era poi così brutto».
Come seconda mossa i monaci confinarono donne e mucche su un’altra isola perché «dove c’è una mucca c’è una donna, e dove c’è una donna c’è discordia». Dopo questo inizio decisamente sopra le righe, Columba trasformò Iona in un importante centro di cultura religiosa da cui partì con i suoi monaci per evangelizzare Scozia e Inghilterra, una sorta di Montecassino del Nord dove centinaia di grandi croci celtiche punteggiavano il percorso di folle di pellegrini arrivati da tutta l’Europa settentrionale.
Nel frattempo, il monastero si ingrandì e produsse raffinate opere d’arte tra cui le miniature dello splendido codice medioevale conosciuto come Book of Kells conservato al Trinity College di Dublino, almeno in parte realizzato quasi certamente a Iona alla fine dell’ottavo secolo. Ultimo lampo di splendore di un monachesimo spazzato via dalle continue incursioni vichinghe che dal 794 devastarono l’isola costringendo i monaci a traslocare persino le reliquie di San Columba, equamente divise fra Scozia e Irlanda.
Dopo il massacro di sessantotto monaci nell’803, il monastero venne definitivamente abbandonato dall’849 al tredicesimo secolo, quando un convento di monache agostiniane riportò una presenza religiosa sull’isola. Per poco, perché la Riforma protestante spazzò via tutto in senso letterale, abbattendo 357 delle 360 croci celtiche che costituivano l’orgoglio di Iona. «L’isola, un tempo metropoli del sapere e della pietà, ora non ha una scuola per l’istruzione, né un tempio per il culto» scrisse dopo averla visitata nel 1773 una celebrità dell’epoca, lo scrittore inglese Samuel Johnson.
Sulle rovine, trasformate in una romantica scenografia teatrale, l’erba della brughiera crebbe fino all’epoca vittoriana, quando Iona ritrovò la sua storia come centro religioso della Chiesa di Scozia, e dopo la fondazione nel 1938 della Iona Community che ebbe un ruolo influente nella rinascita di un cristianesimo che non rinnega le sue radici celtiche, sopravvissute sulle sculture di aggrovigliate spirali della St Martin’s Cross, l’ultima grande croce originale ancora piantata nello stesso luogo da oltre un millennio.
Quasi come un simbolico contrappunto geografico alla bassa skyline di Iona, impregnata di misticismo e resa famosa dalla storia degli uomini, un’isola cattedrale creata dalle tempeste galleggia lontano sull’orizzonte puntando verso il cielo migliaia di colonne di basalto nero. È Staffa che rievoca irresistibilmente le ambigue suggestioni esoteriche de L’Isola dei morti del pittore svizzero Arnold Böcklin. Un quadro inquietante, sospeso tra sogno e realtà sul bordo di un mondo ignoto, una potente metafora di inaccessibilità perfetta anche per la Stafa dei vichinghi, «l’isola pilastro» che rievocava le loro case di tronchi e che, ancora oggi, si lascia raggiungere solo quando cielo e mare concedono una tregua.
Riuscire a mettere piede a terra non è scontato perché spesso i battelli non riescono neanche ad avvicinarsi per la forza del mare, ma, quando le onde si prendono un attimo di calma, piccoli battelli come lo Iolaire sanno come scivolare tra correnti e lame di basalto per attraccare a quello che solo un inveterato ottimista potrebbe definire un piccolo molo e sbarcare una varia umanità capeggiata da anziane signore che saltano di roccia in roccia in cerca di puffin (uccello noto come «pulcinella di mare»), impacchettate in impermeabili a prova di tempesta lunghi fino a terra.
Più poeticamente, per i celti Staffa rievocava il mito di una strada costruita da Finn Mc Cool, un gigante che viveva nel nord dell’Irlanda, per varcare il mare e regolare i conti con il rivale scozzese Benandonner. Un nastro di basalto sprofondato nel mare, creato in realtà da un flusso di lava solidificato sessanta milioni di anni or sono di cui sarebbero sopravvissute le due estremità emerse, la Giant’s Causeway in Irlanda e Staffa, ultima testimonianza di un’isola più grande, con la sua straordinaria texture verticale di colonne prismatiche di basalto esagonali create dal raffreddamento della lava.
Un teatrale scenario fantasy dove milioni di anni di tempeste hanno scavato la Fingal’s Cave, un antro irreale alto venti metri che svanisce in un buio azzurrino ritmato giorno e notte dalle onde che si infrangono contro la roccia e dallo stridio degli uccelli marini che volteggiano alti nel cielo sopra l’ingresso. Il nome glielo ha dato il naturalista inglese Sir Joseph Banks alla fine del diciottesimo secolo, ispirandosi proprio alla leggenda di Finn e affascinato da un’architettura naturale che riteneva più straordinaria del Louvre, di San Pietro, Palmira e Paestum.
Dopo di lui, immancabile, era arrivato Samuel Johnson ed entrambi hanno scritto parole di fuoco sull’insensibilità dei pescatori locali che nella loro pragmatica visione del mondo consideravano Staffa solo un pessimo attracco. Un posto dove nessuno voleva vivere, e l’unica famiglia che ci aveva provato l’aveva definitivamente abbandonata alla fine del diciottesimo secolo, atterrita da spaventose tempeste invernali e da un suolo dove non si riusciva quasi a coltivare un campo o allevare qualche animale. Uno scenario «maledetto», perfetto per le romantiche anime di orde di viaggiatori vittoriani, compresi quelli che oggi probabilmente sarebbero considerati irresistibili influencer, Walter Scott, Jules Verne, Robert Louis Stevenson, l’esploratore David Livingstone e Alice Liddell, ispiratrice di Alice nel paese delle meraviglie.
Nel 1847 persino la regina Vittoria e il principe Alberto avevano dato il beneplacito definitivo alla fama di Staffa spingendosi all’interno della caverna a bordo di una lancia, mentre il pittore William Turner l’aveva immortalata in uno dei suoi paesaggi tempestosi e il compositore Felix Mendelssohn aveva ricreato nell’ouverture Hebrides, conosciuta anche come Fingal’s Cave, le magie sonore create dal mare nell’oscurità della grotta.
Tutti stregati da questa quintessenza della Scozia più estrema dove cielo, mare e vento hanno costruito una perfetta e deserta isola inospitale e irresistibilmente fascinosa a loro immagine e somiglianza. Come la dirimpettaia Iona, popolata dai fantasmi di uno sfuggente universo perduto di monaci-guerrieri e sovrani di regni spesso sopravvissuti solo nelle leggende in cui non mancherebbe neanche Re Artù. «Non era gallese, peggio che mai inglese, era scozzese. Un absolute nonsense e un furto di identità perché l’unica certezza è la sua connessione con l’ultima Età del Bronzo, non con gli estenuati cavalieri dei pittori preraffaeliti» tuonano molti storyteller con kilt d’ordinanza e voce cavernosa disseminati in ogni angolo turistico della Scozia. «Iona è la vera Avalon, l’isola del Mare Occidentale dove venne sepolto Arthur, figlio di re Aidan battezzato proprio da Columba». Saranno anche solo leggende, ma tutto è possibile tra queste indefinibili brume.