Secondo le stime, il 2023 è stato in assoluto l’anno più drammatico sul fronte delle violenze a carico dei palestinesi residenti in Cisgiordania. In base a quanto riporta l’organizzazione israeliana Yesh Din, che dal 2005 si occupa di tutelare i diritti umani dei palestinesi che risiedono in Cisgiordania, si parla di 1200 attacchi, 242 dei quali avvenuti dopo il 7 ottobre. I dati pubblicati dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari sono preoccupanti: dall’inizio della guerra il numero delle vittime palestinesi sarebbe aumentato del 50% rispetto ai mesi precedenti, con 299 morti solo tra ottobre e dicembre. Infatti, mentre le forze dell’ordine sono impegnate a nord e al sud di Israele, in Cisgiordania i civili palestinesi sono preda di violenti attacchi inferti su base quotidiana dai coloni ebrei degli insediamenti circostanti. Tali reati, ulteriormente legittimati dalla salita al potere dell’ultimo Governo Netanyahu nel 2023, restano per la maggior parte impuniti finendo implicitamente per diventare parte integrante delle pratiche illegali che la complessa macchina dell’occupazione israeliana mette in atto nei territori. Una delle aree maggiormente tormentate è quella di Masafer Yatta, agglomerato rurale situato a sud di Hebron, che comprende una ventina di villaggi. In particolare dopo che, nel 2022, la Corte suprema israeliana ha approvato la demolizione dell’area a scopi militari, la vita dei circa 3000 abitanti della zona è scandita dal rumore delle ruspe che interrompono la quiete del paesaggio rurale per distruggere le loro modeste abitazioni, obbligandoli a continui trasferimenti forzati.
Ma Masafer Yatta è anche un punto nevralgico della commovente coresistenza che vede protagonisti attivisti palestinesi ed ebrei israeliani. Questi ultimi, diversi per età, background ed estrazione sociale, vi giungono da tutto Israele in segno di dissenso rispetto alle politiche del loro Governo e per rimediare, per quanto in loro potere, alle ingiustizie da esso perpetrate. Di giorno scortano i pastori e gli agricoltori locali nelle loro attività quotidiane, mentre la notte, quando avvengono le irruzioni più angoscianti, dormono a turno nelle loro case. La presenza degli attivisti ebrei funge da scudo e spesso riesce ad agire come deterrente mitigando la violenza dei coloni. Ma non sempre è così, come nel caso di Neta Ben-Porat, un’israeliana di 46 anni, dirigente high-tech e madre di tre figli, la quale, in un’intervista rilasciata lo scorso gennaio al quotidiano «Haaretz», ha raccontato di essere stata assalita da coloni che picchiavano e lanciavano pietre nel novembre 2021, riportando una ferita profonda alla testa.
Sulle stesse tormentate colline è nato anche il profondo rapporto di amicizia che lega l’avvocato e giornalista palestinese Basel Adra, originario di Masafer Yatta, al giornalista ebreo israeliano Yuval Abraham. Al fine di restituire visibilità alla realtà dell’occupazione e denunciare le violazione dei diritti umani operate dall’esercito e dai coloni israeliani, insieme a Rachel Szor e Hamdan Ballal i due hanno codiretto No other land, da poco premiato come migliore documentario alla settantaquattresima edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino. Fin qui sembrerebbe una storia a lieto fine, se non fosse che, nel discorso di premiazione improvvisato, Abraham, euforico per la vittoria inaspettata, ha ribadito la denuncia delle pratiche di apartheid e menzionato le disuguaglianze tra israeliani e palestinesi in termini di libertà di movimento e diritti politici, omettendo per altro di fare riferimento ai massacri del 7 ottobre ad opera di Hamas. Zelanti come sempre, le autorità tedesche non hanno gradito le critiche mosse a Israele, al quale, come si è affrettato a precisare in un twitt il sindaco di Berlino Kai Wegner, la Germania garantisce appoggio incondizionato. Divenuto virale in Rete, il discorso è stato subito ripreso anche dal canale israeliano 11 che ha accusato Abraham di antisemitismo mettendo in pericolo la sua famiglia, evacuata successivamente nel corso della notte per sfuggire all’assedio della destra ebraica integralista. Abraham, che a sua volta ha fatto sosta in Grecia a causa delle numerose minacce ricevute, ha commentato in fatti nel modo seguente: «Poiché mia nonna è nata in un campo di concentramento in Libia e la maggior parte della famiglia di mio nonno è stata uccisa dai tedeschi durante l’Olocausto, trovo particolarmente scandaloso che i politici tedeschi nel 2024 abbiano l’audacia di usare il termine “antisemita” contro di me in un modo che mette in pericolo la mia famiglia».
Questa vicenda è l’ennesima allarmante conferma di scenari che negli ultimi mesi non fanno che riprodursi. Da un lato, dal 7 ottobre in Israele si respira aria di regime e anche gli oppositori ebrei vengono perseguitati e arrestati con estrema facilità. Dall’altro, come si era commentato lo scorso gennaio in riferimento al caso di Masha Gessen, la Germania non solo arma Israele tecnicamente, ma persiste nel collaborare perseguitando con tenacia chiunque ne critichi le politiche, detenendo il record di arresti e licenziamenti. È davvero desolante constatare una volta di più come le istituzioni occidentali strumentalizzino la Shoah e l’antisemitismo per prendere di mira proprio gli oppositori di Netanyahu che tentano disperatamente di salvare il Paese, e l’ebraismo in generale, dal baratro del fondamentalismo, mentre lui e il suo Governo traggono chiaro vantaggio dall’isolamento degli israeliani ormai tristemente accusati di genocidio, apartheid e pulizia etnica.