Ci sono guerre che non finiscono mai. Passano gli anni e i decenni, passa addirittura più di un secolo e hanno ancora in serbo sorprese letali per i discendenti di chi combatteva al fronte quattro generazioni fa. È il caso delle cinque battaglie di Ypres, in Belgio, avvenute tra il 1914 e il 1918, lungo tutta la durata della Prima guerra mondiale. La cittadina, che venne ridotta in calcinacci e cenere, fu di fatto il centro nevralgico dell’orrore quasi metafisico di quel primo conflitto planetario, fissato nella memoria collettiva dal romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale dello scrittore e sopravvissuto di guerra Erich Maria Remarque, baciato dal successo ma irreversibilmente marchiato dal trauma di quell’esperienza. E chi non lo sarebbe stato, al posto suo? «Vediamo vivere uomini a cui manca il cranio», scrive nel suo capolavoro, «vediamo correre soldati a cui un colpo ha falciato via entrambi i piedi e che incespicano, sui moncherini feriti, fino alla buca più vicina; un caporale percorre due chilometri sulle mani, trascinandosi dietro le ginocchia fracassate; un altro va al posto di medicazione premendo le mani contro gli intestini che traboccano; vediamo uomini senza bocca, senza mandibola, senza volto; troviamo uno che da due ore tiene stretta con i denti l’arteria del braccio per non dissanguarsi; il sole si leva, viene la notte, fischiano le granate, la vita giunge al termine».
Nel gioco di rinvii fra le citazioni di Remarque e le immagini originali in bianco e nero, sembra di essere ancora lì, nelle trincee fangose dove tedeschi e alleati si scannavano senza complimenti
Passano cent’anni e le sorprese che continuano a uccidere dalle parti di Ypres sono gli obici che ogni tanto spuntano dai campi ed esplodono addosso a chi li urta, com’è successo ai due operai saltati in aria qualche anno fa nel cantiere di ristrutturazione di alcuni canali nella zona industriale. E infatti, ancora oggi, esiste un gruppo di sminatori esperti che cerca di bonificare il terreno. Impresa ardua se non impossibile.
Lo scopriamo grazie all’ultimo documentario del regista biaschese Victor Tognola, Niente di nuovo sul fronte occidentale (una coproduzione Frama Films International e RSI) che ha intervistato alcuni membri di questo gruppo. E che a Remarque, cittadino onorario di Ronco ed Ascona, dopo che le sue opere vennero messe al bando dal regime nazista (morì a Locarno nel 1970), aveva dedicato un precedente documentario nel 2011. Ora, con questa nuova fatica che verrà presentata in anteprima il 21 marzo alle 20:00 al Cinestar di Lugano, gli rende un ulteriore omaggio, assemblando una quantità impressionante di documenti visivi, fotografie e filmati d’epoca, raccolti tra il museo In Flanders Fields di Ypres e gli archivi americani che conservano chilometri di pellicole girate dai soldati statunitensi inviati al fronte. La visione del documentario sarà preceduta da una breve introduzione a cui parteciperanno Victor Tognola stesso, Alessandro Marcionni, capo documentari e fiction RSI e Drago Stevanovic, fondatore e direttore artistico di OtherMovie. Il documentario verrà infatti poi trasmesso dalla RSI ed è pensato come anticipazione della rassegna cinematografica. Ma torniamo ai contenuti.
Nel gioco di rinvii fra le citazioni di Remarque e le immagini originali in bianco e nero, sembra di essere ancora lì, nelle trincee fangose dove tedeschi e alleati si scannavano senza complimenti, disumanizzandosi di giorno in giorno e di battaglia in battaglia. È anche inevitabilmente un viaggio tra passato e presente, quello girato e sceneggiato da Tognola, a un certo punto anch’esso inquadrato di spalle, pellegrino della memoria, mentre cammina tra le vie del centro totalmente ricostruito e scrutato a volo d’uccello da un drone che tutto vede dall’alto dei cieli e del tempo che passa ma non passa mai.
«Se ho pensato alle guerre in corso mentre giravo il documentario? In realtà» – risponde Tognola – «l’ho iniziato prima della guerra di Gaza, ma certe scene, come l’esodo dei civili da Ypres, non possono non farti pensare alle code dei poveracci che vediamo nei tg di oggi. Per me Ypres e in generale la Prima guerra mondiale sono l’emblema di tutte le guerre del passato e del presente».
Non ha torto, Tognola. Nel «solo» saliente di Ypres si è visto il peggio dell’umanità in battaglia. Qui venne usato per la prima volta il cloro, causando in dieci minuti la morte per asfissia di tremila soldati francesi. Poi venne testato il fosgene, un gas capace di uccidere diverse ore dopo essere stato inalato. Nel 1917 arrivò l’iprite, noto come «gas mostarda» per il caratteristico odore. «Quei primi momenti con la maschera calata decidono della vita e della morte», scrive Remarque, «sarà impenetrabile? Ho presenti le orribili immagini dell’ospedale: i soldati asfissiati che, soffocando giorno per giorno, vomitano pezzo per pezzo i polmoni bruciati». Qui un giovane soldato tedesco venne ferito al fronte ed ebbe un’avventura fugace con una ragazza del posto da cui ebbe un figlio mai riconosciuto. Il soldato si chiamava Adolf Hitler, e purtroppo per noi, a differenza di altri 500mila militi che da queste parti persero la vita, uscì vivo e incattivito dal pantano di Ypres. «Mi ha colpito e nel documentario ho voluto raccontare anche la storia di Fritz Haber, il chimico e Premio Nobel tedesco (di famiglia ebrea!) che preparò l’attacco chimico ad Ypres – osserva Tognola – e durante la Seconda guerra mondiale mise a punto il Zyklon B, ovvero il gas che venne usato per sterminare i prigionieri nei lager nazisti».
Nel documentario Tognola ci mostra i cimiteri di guerra, i bar tristi della Ypres di oggi, i laghetti ricavati dai crateri scavati dalle maggiori deflagrazioni di oltre un secolo fa, «con risultati paragonabili a Hiroshima, ma qui non si usava la bomba atomica», il serpentone delle trincee «che erano piazzate a cinquanta metri l’una dall’altra, una follia». Fa parlare storici ed esperti, ma offre anche una chiave di lettura diversa che ha a che fare col senso, o il non senso, della guerra, dando voce allo psicoterapeuta ticinese junghiano Daniele Rivola. «Rivola mi ha anche raccontato – osserva – che quando chiesero a Jung se secondo lui ci sarebbe stata un’altra guerra mondiale, lui rispose: Dipende dal numero di individui che si sono messi in accordo con la propria ombra, perché il male dentro di noi c’è. E ce l’ha messo Dio, per farci capire che tocca a noi scegliere tra bene e male. Oggi mi guardo in giro e penso che forse siamo alla fine della razza umana. Anch’io come Jung credo che il futuro dell’umanità dipenda dal numero di persone che riusciranno a rappacificarsi con la propria ombra. Perché l’ombra non puoi toglierla, se no impazzisci, ma puoi venirne a una. Quando ci saranno abbastanza persone rappacificate con se stesse ci sarà un salto quantico verso il bene».