C’è ancora domani (oltre 36 milioni di euro di incasso nel 2023) è il primo film diretto, e scritto, dalla 50enne Paola Cortellesi che ha incantato gli italiani calandosi nel personaggio di Delia: una esile, ingenua e pazientissima romana alle prese con la brutalità di Ivano. «Un uomo e marito che nella vita riesce a fare una cosa sola, massacrare di botte sua moglie», inizia a dirci la simpaticissima Cortellesi, che abbiamo incontrato a Berlino, in questa intervista esclusiva.
Si aspettava tutto questo incredibile successo del film?
Ma come potevo aspettarmelo! Ai produttori ho presentato un film in bianco e nero, d’epoca e sulla violenza di genere. Era improbabile che questi tre elementi fossero di qualche appeal.
Può essere che il film sia piaciuto anche per la sua «pelle» bianco e nera?
La regola non scritta è che il bianco e nero sia il veleno. Ma quando i produttori hanno letto la sceneggiatura si sono innamorati del film per l’argomento. Certo, tutto quello che è accaduto dopo col film era ovviamente inaspettato. E comunque, io volevo fare un film popolare!
Già, ma cosa significa per lei «popolare»?
Significa per tutti, universale. Insomma, vuol dire un film fruibile da tutti e non solo dagli appassionati di cinema.
Quindi, un film in bianco e nero come The Artist?
Esatto, anche quello è un film popolare e che racconta della forza di un amore e di un fallimento.
C’è ancora domani ha anche un po’ l’effetto onirico, il sapore di una favola…
In alcune scene c’è una dimensione da sogno, dovuta alla mia scelta di raccontarle in modo non realistico. Soprattutto nella scena della violenza fra Delia e Ivano, trasposta in danza, volevo raccontare un rituale, il senso della questione, e non i dettagli della violenza di genere.
Ivano è quasi una marionetta, una sorta di Terminator popolare che altro non conosce che le botte alla moglie…
Lui ripete sempre gli stessi schemi, gli stessi errori. E Delia è la vittima che li accetta perché non può fare altrimenti. L’unica cosa che può fare nella sua situazione è andare avanti, passare oltre quei brutti segni di violenza che vanno e vengono sul suo corpo
Sotto questi aspetti il film è «fatalistico»…
Sa, quello era un mondo in cui alle ragazzine si insegnava che, comunque, dovevano obbedire al marito. Se ti capitava la «sfortuna» di un marito violento dovevi accettarla. «Hai visto quella del terzo piano, poverella, le botte che se pija!»: ecco, così nel quartiere e in cortile si raccontavano le storie di famiglia.
ll quartiere in cui l’ha girato è il Testaccio, giusto?
Sì, Testaccio puro. Tranne per la farmacia, che abbiamo girato in una via dei Parioli, tutto il resto è in un cortile vero del Testaccio, ancora oggi più o meno in quelle condizioni.
E i racconti su cui si è basata sono quelli della sua famiglia?
È un film che arriva da varie storie della mia famiglia, dagli anziani, anche da mio nonno. Il gigante del film, il pugile buono e «suonato» è un personaggio realmente nella vita di mio padre. Nelle storie di nonna o della bisnonna c’erano le storie della fame, del cortile, delle comari che chiacchieravano.
Il suo in ogni caso è un inchino alla stagione del Neorealismo…
Ha detto bene, è un inchino al neorealismo perché non serviva certo che scimmiottassi nulla. Nei primi 8 minuti e mezzo ho voluto giocare col neorealismo più «rosa» e con le musiche dell’epoca. Ad esempio con Campo dei Fiori, il film in cui Anna Magnani, che vende la frutta al mercato, si innamora di Aldo Fabrizi, un pescivendolo. E poi ho voluto spaccare tutto questo e raccontare una storia contemporanea e di un rapporto tossico di coppia.
Entrando nei panni di Delia si è sentita di reinterpretare una Anna Magnani del 21esimo secolo?
Come ogni italiano io venero Anna Magnani. Ma la sua forza di attrice è stata quella di interpretare per prima delle donne fortissime, autodeterminate, anche aggressive. Delia, al contrario, è sottomessa. Io volevo raccontare le donne che non hanno mai alzato la voce, le succubi di sempre.
Già Marcella, la figlia di Delia, è più aggressiva della madre, e non sopporta la sua sottomissione..
Marcella ha una marcia in più, è arrabbiata con la madre, ma tutte e due si tendono la corda per una scalata verso la liberazione. Ma se la rabbia della figlia smuove Delia, anche Marcella per amore sta per cadere nell’identica trappola. E lì è sua madre che si fa avanti e la salva.
Al centro del film c’è l’amore tossico, quasi primitivo tra Ivano e Delia. Ivano è il simbolo del maschilismo più ossessivo e brutale della tradizione patriarcale italiana…
Sì, l’incubo è dentro casa, nelle mura familiari che dovrebbero essere di protezione. La figura di Ivano è quella di un uomo piccolo, che fa discorsi ridicoli. Dentro casa Delia ha due tiranni, Ivano e suo padre che sono due idioti e difendono teorie assurde sulle cugine e sulle botte.
Ogni tre giorni in Italia muore una donna, ammazzata a colpi di pistola, coltellate, di botte. In che modo il suo film può contribuire a gettare una luce in questo orrore quotidiano?
Un film non cambia le cose, non cambia la cultura di un Paese. Ma come ogni storia anche un film può essere stimolo di conversazione e condivisone. La cosa che è capitata con C’è anche domani è che, uscendo dal cinema, le persone si parlavano, discutevano di quel che avevano colto.
Le prime elezioni politiche in Italia si tennero il 2 e 3 giugno del 1946, e per la prima volta donne come Delia votarono. Perché ha scelto il voto come primo momento di emancipazione femminile?
Delia se lo stringe al petto il certificato elettorale. «Stringevamo le schede come biglietti d’amore» si legge nel finale del film. Per la prima volta qualcuno, molto più importante degli aguzzini a casa, certificava alle donne dei Diritti. Lo Stato diceva alla donna: tu sei importante. E ogni donna percepiva che il suo voto, la sua parola, la sua opinione conta.
Nel film è quello, dopo il voto, l’unico momento in cui Delia alza la testa…
Sì, alza la testa e sorride a Marcella, e la figlia sorride orgogliosa alla madre. All’epoca, ricordiamocelo, non c’era il divorzio. L’emancipazione femminile avrà bisogno del ’68, di un discorso molto più lungo. Ma il film è un viaggio nella presa di coscienza di una donna che non ha nessun tipo di preparazione politica o culturale, ma che per la prima volta va al voto. E ci andarono 13 milioni di donne a votare in quei due giorni di giugno.
Per la prima volta nella storia della Repubblica, c’è una donna al governo, Giorgia Meloni. Non è un paradosso che la prima donna eletta al governo degli italiani sia «un presidente», come si fa chiamare lei, e di destra?
Sono felice che ci sia una prima donna presidente del Consiglio, anche se un po’ mi spiace che si faccia chiamare «il presidente». Ma è una sua scelta e bisogna rispettarla.
Gli ideali della destra però sono il contrario di quelli che il suo film promuove…
Diciamo, che sono ideali che non aiutano la questione femminile. Per questo come semplice cittadina, mi sono permessa di auspicare che le due donne oggi al potere in Italia, Giorgia Meloni ed Elly Schlein, a capo del Partito Democratico, parlassero dell’unica cosa che hanno in comune, il loro essere donne e fare qualcosa per l’emancipazione femminile. Questa sì che sarebbe la vera rivoluzione.