Lo spettro dell’atomica

Alfredo Venturi

Nervi tesi e scenari poco meno che catastrofici nel tempo inquietante della guerra ucraina. La temuta escalation militare è preceduta dall’ulteriore inasprirsi della polemica. La strage della Crocus City Hall di Mosca, con le sue almeno 140 vittime, è diventata per le opposte propagande oggetto di speculazione, un reciproco rinfacciarsi di accuse sui mandanti. Raramente le relazioni russo-americane sono state così tese. Sembra un’altra era geologica, eppure non è passata più di una quarantina d’anni da quando il presidente americano Ronald Reagan accoglieva a Ginevra il segretario generale dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov, con un’interminabile stretta di mano. Era il 1985, una brumosa giornata di novembre illuminata dal chiarore di un’epoca nuova carica di promesse. Negli anni immediatamente successivi quella atmosfera avrebbe rivoluzionato il sistema delle relazioni internazionali.

Il disgelo ginevrino

A Ginevra i due capi di Stato si accingevano a dare un colpo di acceleratore al processo di riduzione delle armi strategiche che si trascinava stancamente da anni. Ad aprire la strada verso lo sblocco dell’impasse diplomatica erano da una parte Gorbaciov, che aveva spalancato le porte dell’Unione Sovietica nel segno della Glasnost avviando le riforme della Perestroika, dall’altra Reagan che rinunciando finalmente all’armamentario dialettico dell’«impero del male» aveva saputo cogliere la grande occasione. Per la rimozione degli ultimi ostacoli e la firma dei trattati i due statisti s’incontreranno ancora tre volte: a Reykjavik, a Washington e infine a Mosca. Intanto la storia aveva ingranato le marce alte e camminava spedita: appena un lustro dopo il disgelo ginevrino cadeva il Muro di Berlino e crollava l’Unione Sovietica mentre un politologo americano, Francis Fukuyama, proclamava «la fine della storia».

In realtà la storia non era affatto finita, e mentre gli accordi sul disarmo atomico, frenati dai tecnici delle due parti, non tarderanno a rivelarsi poco più che palliativi, ben presto ripartirà la logica della guerra fredda che sembrava superata per sempre, in un mondo ancora diviso da contraddizioni insanabili, gelosie nazionali, contrasto d’interessi, contenziosi ereditati dal passato. Non a caso i due sacri principi sui quali si regge la stabilità internazionale, diritto all’autodeterminazione dei popoli e inviolabilità delle frontiere, sono in evidente contrasto. E così si arriva al punto che, dopo decenni di equilibrio del terrore e dopo i trattati sul disarmo nucleare, si riprende a parlare di guerra atomica come possibile sviluppo delle situazioni di crisi. Non solo: le parti si accusano vicendevolmente di voler mettere le mani su quella fatale panoplia. E così gli eventi della guerra ucraina hanno portato a sdoganare l’arma nucleare, smentendo la sua funzione tradizionale che è sempre stata la deterrenza.

A Ginevra, nonostante il calore umano sprigionato dai due capi di Stato, era uscito qualche segnale preoccupante. Nelle lunghe giornate negoziali era sempre più diffusa la sensazione che i piani di limitazione e riduzione delle armi strategiche nascondessero nient’altro che il desiderio di rinnovare l’arsenale atomico, sbarazzandosi delle armi tecnicamente obsolete e sostituendole con i nuovi micidiali prodotti della ricerca militar-industriale. Eppure quei ferri vecchi, o quello che comunque ne sarebbe restato dopo la riduzione concordata, erano più che sufficienti per vetrificare il mondo intero. Ma almeno si diceva e si ripeteva quello che oggi sembra passato in sottordine: che quelli erano strumenti destinati a garantire la distruzione di chiunque li volesse impiegare, e proprio per questo ad assicurare quella che usavamo chiamare pace.

Ci si chiede che cosa abbia provocato il tramonto della deterrenza come elemento fondamentale ed esaustivo della disponibilità di simili strumenti militari, ma non è facile rispondere. Certo, prima di tutto bisogna considerare il progressivo deterioramento del clima politico fra le superpotenze e fra i blocchi contrapposti, che accompagna beffardamente il ben noto peggioramento della climatologia vera e propria. Inoltre pesano le molte instabilità seguite agli spettacolari assestamenti geopolitici degli anni Novanta del Novecento, dalla fine dell’Unione Sovietica alla frantumazione della Jugoslavia, che si sono aggiunti a contenziosi storici come la questione di Taiwan, l’altra Cina che Pechino considera sua, o il contrasto frontaliero fra la Cina e l’India, le due massime potenze demografiche.

Potenza distruttiva

Contribuiscono in qualche modo a sdoganare la bomba anche i progressi della tecnologia che miniaturizzando le applicazioni le ha rese simili a strumenti chirurgici selettivi, capaci di agire su specifici obiettivi senza quell’immagine fatale che fece degli ordigni lanciati su Hiroshima e Nagasaki il simbolo della follia guerriera e del Novecento il secolo più cruento della vicenda umana. È vero che le due bombe impiegate alla fine della Seconda guerra mondiale hanno ben poco a che fare con l’apocalittica potenza distruttiva delle attuali testate multiple, capaci di recapitare una decina di ordigni in qualsiasi parte del pianeta. Stati Uniti e Russia dispongono di migliaia di queste armi che gli americani ospitano prevalentemente nei silos disseminati nel loro territorio, mentre i russi preferiscono gestirle sui sottomarini a propulsione nucleare.

Mentre i risultati raggiunti dalla diplomazia del disarmo atomico possono considerarsi soddisfacenti soltanto per quanto riguarda i missili di portata intermedia, è pur vero che il numero complessivo di queste armi ha avuto negli anni più recenti una costante tendenza al ribasso, Ma non per tutti: ci sono cinque Paesi – Cina, Russia, Pakistan, India e Corea del Nord – che hanno aumentato le loro scorte. Secondo i dati più recenti gli arsenali di nove Paesi contengono 12’512 testate nucleari. Russia e Stati Uniti ne hanno rispettivamente 5889 e 5244, gli altri sette Paesi (Cina, Francia, Regno Unito, Pakistan, India, Israele, Corea del Nord) controllano le rimanenti 1379. Un solo Paese, il Sudafrica, ha rinunciato nel 1989 all’avventura nucleare dopo che negli anni Settanta vi si era impegnato avviando la produzione di armi atomiche. Una bella lezione al mondo intero, simile a quella contenuta in una celebre dichiarazione di Reagan e Gorbaciov: «Una guerra nucleare non può essere vinta e non deve essere combattuta».

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