Gli Yazidi e le uova di Capodanno

by Claudia

Reportage - A dieci anni dal genocidio del popolo di lingua Kurmanji per mano dell’ISIS, assistiamo al primo giorno del nuovo anno in Iraq secondo la tradizione del calendario gregoriano celebrato il primo mercoledì di aprile

Sguardo concentrato, piede destro in posizione di battaglia, nove o dieci anni al massimo: inizia la sfida. Fra loro, due uova sode. È Hekkane, il gioco che in Iraq coinvolge tutti gli Yazidi, bambini e adulti, il primo giorno del nuovo anno.

A circa sessanta chilometri da Mosul si trova Lalish, tempio sacro degli Yazidi, che da secoli si radunano al suo interno, ogni anno ad aprile, per celebrare un nuovo inizio – o Sere Sal, come è chiamato in lingua Kurmanji l’anno nuovo. Sono ormai cinque anni che le celebrazioni hanno ripreso a tenersi con regolarità. Erano cessate bruscamente quando i miliziani dell’auto-proclamatosi Stato Islamico hanno occupato Sinjar, il cuore della comunità Yazidi, nel 2014.

Secondo il calendario Yazidi, gregoriano, Sere Sal viene celebrato il primo mercoledì di aprile. La mitologia narra che il «mercoledì rosso» rappresenta il giorno della fine della creazione terrestre, quando i raggi del sole hanno raggiunto il nostro pianeta per la prima volta e il firmamento si è colorato di rosso. I credenti della fede monoteista commemorano l’anno in cui Melek Tā’us, l’angelo «pavone» e capo dei sette arcangeli capostipiti dei principali clan Yazidi, è sceso dal paradiso per trasformare la Terra dallo stato liquido allo stato solido e benedirla. Mediatore fra Xwedê, l’unico Dio in cui credono, e gli uomini sulla terra, Melek Tā’us avrebbe spiegato la coda per tingere la Terra di sfumature brillanti.

Sulle terrazze che circondano il tempio, i colori dell’arcobaleno riempiono le mani dei credenti e le uova si tingono di rosso, giallo, verde e blu – i colori sparsi dalle piume del pavone sul nostro pianeta. Bollite, le uova simboleggiano l’inizio dell’esistenza e la solidificazione della Terra. Sandali e scarpe si fermano all’entrata del tempio, e centinaia di piedi accarezzano il pavimento di quella che per la comunità Yazida è meta del pellegrinaggio di una vita.

Minoranza etno-religiosa endogamica, indigena della regione storica dell’alta Mesopotamia, la maggioranza degli Yazidi ora risiede nella parte settentrionale del Kurdistan iracheno. Nel corso della storia, è stata oggetto di continue discriminazioni, atrocità e massacri. Gli Yazidi sono sopravvissuti a diversi tentativi di eradicazione culturale e religiosa. Quando le truppe dello Stato Islamico hanno preso il controllo della maggior parte del nord iracheno, nel 2014, gli Yazidi sono diventati ancora una volta bersaglio di abusi, islamizzazione forzata e crimini contro l’umanità. La minorità Yazida è stata oggetto di una sistematica campagna genocidaria: donne e bambine sono state deportate e rese schiave, mentre gli uomini venivano giustiziati in massa.

A lato del tempio, uno specchio passa di mano in mano. Le ragazze si prendono in giro, vedendosi riflesse: una si sistema fiori color porpora nei capelli, mentre le altre due controllano che il loro candido vestito non si sia sporcato di cenere durante la notte. Amira le guarda sorridendo. «Mi sembra ieri, che portai mia figlia a Lalish per la prima volta», mi dice con voce nostalgica. «Aveva quattro anni e un vestito lilla che le stava troppo grande. Inciampava sempre e io avevo il terrore che l’orlo potesse prendere fuoco, strisciando sul suolo illuminato del tempio. Le ho mostrato come scegliere le pietre migliori, quelle piatte, per poterci appoggiare i fili di lana di pecora e accenderli senza bruciarsi le dita. Con l’ingenuità di chi ancora crede tutto possibile, mi ha chiesto se i miei desideri, in passato, si sono avverati. Ho abbassato gli occhi, il coraggio chiuso in qualche lacrima che non volevo mostrare».

È l’alba, le candele ancora accese sono poche; eppure, è l’ora del ricordo. Hazim mi mostra il luogo ancora caldo di preghiera. «Aprile è un mese particolarmente sacro per gli Yazidi», dice, lo sguardo solenne appoggiato all’orizzonte. «Il matrimonio è proibito, durante il mese di aprile, quando la Terra riprende vita: crediamo porti sfortuna. Allo stesso modo è proibito tagliare alberi e arare la terra, poiché questo distorce la bellezza della natura. Anche il perdono prende vita ad aprile: quelli che sono stati nemici cercano la mediazione tramite l’aiuto di un prete, o di un amico, per il bene di un nuovo inizio».

Fa scorrere le dita sulle venature della pietra, quasi cerchi la traccia di una mappa invisibile: «Quest’anno sono dieci anni. Dieci anni da quando i fondamentalisti del nuovo Califfato ci hanno sottratto più di 5mila anime. È un mese di aprile particolare, questo. La memoria arde e celebriamo la vita con ancora più forza».

Più di mille uliveti accerchiano Lalish. Si respira pace. Qualche ora prima la valle sfavillava: fiamme danzanti illuminavano ogni angolo di un cremisi acceso, c’era odore di olio e papaveri, e ombre di preghiere adornavano i muri del tempio. Ora tutto è tornato bianco. I colori dell’arcobaleno li indossano le donne, che portano dolci e frutta al cimitero più vicino. Le tombe si trasformano in banchetti. Le ragazze più giovani cantano e ballano al suono di dohol (tradizionali tamburi con due lati in pelle) e zurna (strumenti a fiato, simili all’oboe), mentre viene servito il tashreeb, una miscela speziata di agnello, cipolle, aglio, lime essiccato e ceci, nella quale sono intinti pezzi di pane arabo intrisi di brodo.

Le porte delle case sono decorate con gusci, fango e fiori, così che l’angelo creatore possa riconoscerle ed esaudire i desideri espressi durante la notte. Si finisce di giocare a Hekkane: le uova si sono rotte e sono emersi sole, terra e stelle. È l’inizio di un nuovo anno, di una nuova primavera, di un nuovo ciclo di vita.

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