Tore Renberg (nella foto) in La mia Ingeborg, finalista al Premio Strega Europeo, usa un linguaggio scarno e diretto, molto ritmico, fatto di frasi brevi e percussive da teatro dell’assurdo. Un monologo costruito abilmente su periodi corti, frasi insistenti e tese come in un thriller, capitoli brevi.
L’io narrante è l’anziano Tollak che vive in una casa isolata nella natura incantata di Vestmarka, nell’ovest della Norvegia, vicino all’Oceano Atlantico, dentro un paesaggio dai tratti prepotenti e fiabeschi, dove per tutta la vita ha fatto il falegname costruendo mobili e adesso cura un ragazzo con disabilità mentale, Otto. Probabilmente un figlio illegittimo preso in affido da ragazzino, è considerato da tutti lo scemo del villaggio. Lo scorbutico e sgradevole protagonista malato di cancro, si presenta al lettore in modo schietto precisando «Sono Tollak di Ingeborg», e ancora «appartengo al passato».
Infelice e duro, dal carattere intimamente sprezzante e negativo, vive nel ricordo assillante della moglie con la quale dialoga in assenza dentro e fuori la casa dove abita, mentre è in attesa dei figli Jan Vidar e Hillevi. I due vivono a Oslo, con loro non ha più rapporti se non conflittuali, ma deve confidargli un segreto. Ricorda spesso a sé stesso che «la bottiglia è dentro la credenza. Ci sono passato davanti qualche volta. Mi sono fermato e ho allungato la mano, ma stasera non la tocco», come una voce angosciata della coscienza, perché ha avuto sempre problemi con l’alcol. «Ci sono periodi in cui devo bere. (…) Sento i denti stringersi, anche se non l’ho chiesto io. Vedo le mani contrarsi a pugno, anche se non gliel’ho chiesto io. Stammi lontano, Ingeborg, le dicevo quando venivo travolto da tutto questo», confessa stravolto. Il racconto ossessionato e maniacale di Tollak è tutto mirato su Ingeborg, sulla sua perdita, come se la sua vita fosse stata solo una conseguenza di quella di sua moglie, con la quale ha avuto un rapporto simbiotico, e avesse sempre vissuto di luce riflessa.
Perché ha scelto come forma di racconto il monologo interiore, la confessione, e come ha costruito questo personaggio, Tollak? Da dove nascono la sua rabbia, la sua durezza, l’odio per il mondo circostante, quello che chiama «sangue amaro»?
All’inizio è arrivata la sua voce, quella di Tollak, una voce che diceva questo tempo non è il mio, non voglio partecipare al vostro mondo, non voglio vivere con voi. Volete sputarmi in faccia? Fatelo pure. Volete calpestarmi? Calpestatemi, fate quello che volete, non voglio altro che mia moglie Ingeborg, relazionarmi con lei. È una situazione che si ripete quando nasce un mio libro, una voce viene a cercarmi, mi parla, prende forma dentro di me e allora penso: cosa sta succedendo? Che accadrà adesso? Questa cosa mi spinge a interrogarmi e a cominciare a scrivere, a non perdere contatto con quello che dice. Ho afferrato il timbro di questa voce sin dal primo momento, il suo carattere duro, scontroso, il suo essere contro la società contemporanea in modo viscerale, senza compromessi. Mi è sembrata subito molto interessante, molto vera. In quella voce ho sentito qualcosa di autentico e unico ma anche parte di un sentire molto comune, un sentimento di rabbia nei confronti di chi ha in mano il potere, decide e sceglie per gli altri.
Il romanzo ha un’ambientazione provinciale, tutto si svolge in una fattoria isolata tra i boschi di Vestmarka a ovest della Norvegia, un paesaggio forte, molto presente, che incide sull’antropologia dei personaggi. La commedia umana si vede meglio nei microcosmi, nei piccoli paesi? Oppure nei luoghi isolati, decentrati, si sente di più il disagio, la delusione nei confronti di una società in velocissima trasformazione che molti individui non capiscono più?
È così, c’è una distanza molto forte tra la vivacità della città e i luoghi isolati come quello del romanzo, tra centri e periferie, ma credo che la stessa rabbia di Tollak possa provarla anche un giovane che vive in un monolocale a Milano o a Oslo: questo odio, questa estraneità di chi non si riconosce nei valori dominanti si può trovare in qualsiasi posto.
Il titolo del libro La mia Ingeborg già denuncia il lato morboso, possessivo che Tollak stabilisce con sua moglie, la psiche tortuosa del personaggio, il suo mondo mentale visionario, distorto. È lui che la spinge a un rapporto assolutamente esclusivo, a due, allontanandola dal mondo delle relazioni, dagli effetti, qualcosa di molto comune in certi rapporti devianti, pericolosi. Ma è un sentimento sempre ambivalente, perché nonostante questo rapporto si trasformi in un amore tossico, il loro è stato anche un rapporto intenso, simbiotico e carnale, un amore vero.
Qui si coglie qualcosa di importante, nevralgico, questo è proprio il centro di quello che intendevo raccontare. Volevo dimostrare che Ingeborg e Tollak hanno avuto un rapporto amoroso molto stretto, molto profondo, ma poi l’amante fa nei confronti dell’amata delle cose molto negative, molto gravi, arrivando persino a ucciderla. Sia l’autore che chi legge si chiedono come può succedere in una coppia che si ama così tanto una cosa così sconvolgente. Viviamo in società dove sono molti i casi di femminicidio che nascono da rapporti di questo tipo, molto chiusi, autosufficienti, con poche relazioni sociali, e spesso ci chiediamo come è possibile che si possa fare del male proprio alle persone che amiamo di più. Il senso del romanzo è anche questo, sta dentro un interrogativo di questo tipo. Nel caso di Tollak tutto nasce dall’isolamento, dalla distanza dalla vita reale, da questa frattura tra la vita intima, privata, e il mondo circostante. Nei momenti di grande trasformazione sociale ci sono individui che hanno una reazione negativa nei confronti della società e del potere, pensano che tutti i loro sentimenti, i principi, il mondo naturale dove vivono e sono da sempre le loro radici, sono stati calpestati dalla modernità. Pensano che tutto ciò che rappresentava la loro cultura è minacciato e abbia perso improvvisamente valore.
La forma del romanzo, un monologo allucinato dal ritmo incessante, mi ricorda Memorie del sottosuolo di Dostoevskij. C’è lo stesso clima mentale del personaggio, un disprezzo assoluto per le cose del mondo, per la vita.
Questo è un grandissimo complimento. Quando avevo quindici anni la mia prima importante esperienza di lettore è stata la lettura di Delitto e castigo, il mio primo vero incontro con il mondo della letteratura. Leggendo quel libro ho deciso che sarei diventato uno scrittore. Dostoevskij partecipa in modo febbrile alla descrizione dei suoi personaggi, quasi si trattasse di una ossessione, una malattia. Ho sempre guardato con ammirazione alla sua letteratura che per me è stata una meta costante alla quale aspiravo sin da quando ho iniziato a scrivere i primi libri.
Tollak è violento, brutale, detestabile, ma anche tenero, sentimentale, onesto, attraverso il suo romanzo e alla scrittura riusciamo ad entrare in contatto col suo mondo complesso, sfaccettato, con la sua psicologia piena di contraddizioni. È questo il miracolo e la funzione della letteratura, portarci dentro le segrete dell’animo umano?
Il personaggio di Tollak è ripugnante, ma quando si scoprono gli altri aspetti della sua persona, del personaggio la sua immagine cambia completamente. La letteratura può cogliere anche aspetti nascosti, segreti, le finezze ma anche le asprezze di un carattere, è il suo dono, quello di afferrare il personaggio nel suo insieme, nella sua complessità. La letteratura ha anche altri scopi, altre ragioni, ma secondo me questo è il suo principale, rivelare aspetti altrimenti indicibili, inesprimibili se non con la forma del racconto, del flusso delle parole.