Cannubi è una grossa collina, che si erge poco prima di Barolo, comune di 600 abitanti, il cui nome però è conosciuto in ognuno dei Continenti grazie al leggendario vino. E assieme alla Langa del Barolo è considerato un Patrimonio dell’Umanità. Il Barolo è figlio di vigne che crescono su un terreno emerso dieci milioni di anni addietro, la cui composizione, argille miste a sabbie finissime e calcare, risulta irripetibile in ogni altra parte del mondo. I filari mutano dal grigio venato di blu al giallastro. Con il miracolo dello sdoppiamento: dalle stesse uve Nebbiolo, spesso a minima distanza, nasce anche il Barbaresco: l’altra faccia, e che faccia, del Barolo. Il tutto intorno ad Alba, ben felice di rappresentare un’attrazione mondiale in grado di accoppiare questi nettari alla Nutella della famiglia Ferrero. A consacrare la specificità di Cannubi il dieci e lode assegnato al Barolo Cannubi riserva 1752, annata 2016. Il titolare del marchio è il mancato sindaco di Torino, Paolo Damilano, del centrodestra, battuto a sorpresa da Stefano Lorusso. La sconfitta gli ha consentito di dedicarsi alla prestigiosa azienda vinicola fondata dal padre. Non stupisce allora la notizia circolata con insistenza tra i casali della zona di un’offerta monstre: 5 milioni di euro per un ettaro di vigneto. Si sussurra di fondi americani pronti a un massiccio investimento e di una proprietà italiana ancora incerta se accettare o meno.
E dire che quando mezzo secolo addietro Bruno e Marcello Ceretto, la più famosa dinastia del Barolo, scommisero sulle Langhe ogni ettaro costava sui 50 milioni di lire (circa 600mila euro). I due fratelli, i cui genitori avevano avviato l’attività a metà degli anni Trenta, si rivolsero alle banche locali e con un mutuo finanziarono l’acquisto di vaste tenute. Se lo sono ripagato con i proventi crescenti delle vendite. Oggi i Ceretto possiedono 170 ettari di vigneti che si estendono tra Langhe e Roero, 4 cantine, 17 vini prodotti, 150 collaboratori tra vigna, cantina e ufficio, 5000 clienti suddivisi in enoteche e ristoranti italiani ed esportano in 60 Paesi. Si consentono il lusso di far realizzare le etichette a Silvio Coppola, un famoso designer degli anni Ottanta, e finanziano nel 1999 la rinascita dell’antica Cappella di Santissima Madonna delle Grazie. Furono chiamati a trasformarla Sol LeWitt, che si occupò del rifacimento esterno, e David Tremlett, che ridipinse tutto l’interno. Nacque così, in uno stile tratteggiato con vari giochi di colori e contraddistinto da una trama variopinta, la Cappella del Barolo, meta ogni anno di circa cinquantamila visitatori.
Una storia infinita quella del Barolo, iniziatasi attorno al 500 a.c. con la popolazione dei Liguri Stazielli: piantarono le prime rudimentali vigne. Fra i principali estimatori i Galli, la cui conquista dei territori d’Oltralpe venne motivata anche con la predilezione per il vino qui prodotto. La prima citazione dell’uva Nebbiolo è legata all’arrivo nel 1250 della famiglia Faletti, potenti banchieri esponenti della nuova borghesia: comprarono tutti i possedimenti di Barolo dal comune di Alba e ne segnarono il destino. Nel 1268, in alcuni documenti storici redatti e conservati al castello di Rivoli, venne menzionato il «Nibiol». La coltivazione di questa uva e il vino da essa ricavato ebbero un maggiore sviluppo durante il periodo rinascimentale. La vera notorietà giunse nel 1751 quando un gruppo di diplomatici piemontesi spedì a Londra alcune casse di «Barol»: il grande successo del vino coinvolse pure il futuro presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson, in viaggio diplomatico in Europa. L’apprezzò al punto da citarlo nei diari: «Quasi amabile come il Bordeaux e vivace come lo Champagne». In quegli anni, infatti, il Barolo era un vino dolce e frizzante in conseguenza della diversa fermentazione poiché non si sapeva ancora come trasformare in alcol tutti gli zuccheri contenuti nel mosto.
A modificarlo fu un’erede dei Faletti, la marchesa di Barolo Giulia Colbert, discendente del famoso ministro delle Finanze di Luigi XIV. Grazie ai suggerimenti del grande enologo francese Louis Oudart predispose la costruzione di cantine sottoterra, che crearono un microclima protetto dove il vino potesse invecchiare in modo controllato sviluppando corpo e struttura. Nel 1830 l’invio al re sabaudo Carlo Alberto di 325 botti, una per ogni giorno dell’anno esclusi i giorni di Quaresima, coinvolse anche la corte di Torino. Carlo Alberto ne fu così conquistato da acquistare una tenuta a Verduno. Negli anni successivi un altro grande estimatore divenne il conte di Cavour, il geniale statista che fece del Piemonte il motore della strategia per giungere all’unità d’Italia. Cavour divenne un produttore di Barolo e lo impose nei banchetti ufficiali fino ai festeggiamenti per l’Unità nel 1861 facendo in tal modo di Alba la capitale dell’enologia italiana.
Ottant’anni dopo Alba e le Langhe si sarebbero trovate al centro di un’altra decisiva fase storica: la resistenza contro il tedesco invasore. Come raccontato da Beppe Fenoglio, il più talentuoso scrittore italiano del dopoguerra, ne I ventitré giorni della città di Alba il capoluogo del Barolo assaporò addirittura un’incredibile fase di libertà – dal 10 ottobre al 2 novembre 1944 – prima di ricadere sotto il tacco nazista. In queste terre si combatté in un clima di odio crescente fino all’aprile ’45. Tornati a fare i viticoltori, i partigiani del tempo non dimenticheranno i soprusi subiti, ma saranno ben felici di arrendersi a una seconda invasione germanica, quella che fin dagli anni Novanta porterà decine di migliaia di turisti golosi delle prelibatezze locali e impegnati per una settimana nel giro di cantine ed enoteche.