Le iraniane non si lasciano intimidire

«Se uno cerca veri attivisti contro la guerra, deve solo guardare le impavide donne dell’Iran. Ogni giorno affrontano i guerrafondai per strada». Sa bene di cosa parla Masih Alinejad, giornalista e attivista iraniana che, dagli Stati Uniti, sostiene con tutta la forza di cui la sua voce è capace il movimento delle sue connazionali che, a Teheran e in molte altre città del Paese, continuano la loro lotta per ottenere diritti e libertà anche dopo che, con la tensione internazionale alle stelle, la Repubblica islamica ha annunciato una ulteriore stretta nei confronti delle «donne che non hanno fatto attenzione ai precedenti avvertimenti della polizia». E che, secondo la sinistra promessa del generale Abasali Mohammaddian «saranno l’oggetto di un attenzione particolare e saranno perseguite», come poi è prontamente avvenuto nei fatti. «Da donna che vive in Iran, la probabilità di morire per mano della polizia morale è più alta di quella di morire sotto le bombe israeliane», ha sentenziato un’utente di X, indicando bene quella che è l’atmosfera nel Paese.

Il 13 aprile scorso è stato il giorno in cui tutto è precipitato e Teheran ha fatto la voce grossa, molto grossa: sono stati lanciati i missili verso Israele e annunciato un giro di vite sul rispetto della cosiddetta morale pubblica, a pochi giorni dal discorso della guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, il quale aveva ribadito che le donne di ogni religione devono portare il velo in modo corretto nel Paese, come stabilito in seguito alla Rivoluzione del 1979 che ha tolto alle donne le libertà di cui godevano con lo shah. Nonostante gli annunci, le donne non si sono lasciate intimidire, come dimostrano gli orrendi video di giovani spinte nelle camionette della polizia oppure quello di una ragazza senza velo in preda a convulsioni in strada dopo che il cellulare le era stato confiscato e assistita da una folla di persone, tra cui alcune donne più anziane con il velo morbidamente appoggiato su una testa quasi scoperta.

Una violazione delle regole, la dimostrazione che la ribellione non appartiene solo alle tante giovani temerarie, come l’artista e militante Atena Farghadani, arrestata il 13 aprile per «propaganda contro la Repubblica islamica» e pronta a rifiutare perfino la sua liberazione su cauzione in segno di protesta. Le donne vengono aggredite nelle loro macchine, i locali in cui le regole sul velo non sono rispettate vengono chiusi. Le denunce pubbliche si moltiplicano, la sensazione è che l’insofferenza sia arrivata a un punto di non ritorno e che neanche i 500 morti degli ultimi anni bastino a mettere paura.

Dalla morte di Mahsa Amini nel settembre 2022 (in seguito ad un arresto perché non indossava correttamente l’hijab), una larga fetta della popolazione ha iniziato a manifestare contro il Governo, dando linfa al movimento Donna, Vita, Libertà. Il Governo ha risposto con la Legge sulla castità e sul velo che aumenta le punizioni nei confronti delle ragazze e delle donne accusate di indossare il velo in modo scorretto. Nel non cedere, ha accresciuto uno scontento che, secondo Shirin Ebadi, avvocata e premio Nobel per la pace nel 2003, tocca ormai vette dell’80 per cento della popolazione. La Repubblica islamica ha ben chiara la situazione, ma l’ha risolta con la brutalità, tanto che, secondo Ebadi, «hanno aumentato la polizia morale, sono tornati a essere molto aggressivi con le donne che non indossano il velo, hanno fatto sapere che chiunque supporti Israele, anche via social, verrà messo in prigione. Il primo, vero nemico di Khamenei è il popolo iraniano». Che sia un segno di nervosismo o meno, il fatto che tante donne continuino a sfidare la legge, con un forte sostegno degli uomini come spiegato nel bellissimo libro di Liliana Faccioli Pintozzi, Figlie di Eva, che parla della situazione dei diritti delle donne in Iran, Afghanistan e Stati Uniti, mostra un pericolo dilagante per Teheran, che deve vedersela con una società istruita, avanzata, in cui il ricordo della parità passata continua a farsi sentire.

Il velo è simbolo di uno scontento diffuso. Ovviamente il regime parla di festeggiamenti di massa tra i cittadini per l’attacco a Israele, ma non è così: la preoccupazione per l’economia, l’inflazione alle stelle, il crollo del valore della valuta e la paura per l’impatto di nuove sanzioni – come quelle annunciate giovedì 18 aprile dagli Stati Uniti nei confronti delle aziende che producono droni e dell’industria siderurgica e seguite dall’annuncio che anche altri Paesi si muoveranno in questa direzione – sono molto più concreti. Certo, in una situazione di guerra vera e propria il Governo avrebbe gioco facile a dare un’ulteriore stretta autoritaria e cercare di contenere lo scontento, ma la posta in gioco è enorme e finire nel mirino di Israele non è una cosa che il Teheran possa affrontare senza preoccupazioni.

Per questo attiviste e attivisti stanno chiedendo un segnale forte da parte dei leader mondiali. Il direttore del Centro per i diritti umani in Iran, CHRI, Hadi Ghaemi, ha detto che donne e ragazze sono oggetto «di violenza di Stato fuori dal controllo» e per questo ha chiesto che si codifichi l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità e che ci siano condanne pubbliche dalle Nazioni unite e dai Governi. Il corto circuito fa sì che il dolore per la tragedia a Gaza abbia gettato una luce di simpatia internazionale per le azioni del regime di Teheran e il suo attacco a Israele. Il rischio è che questo lasci sole le attiviste e le donne comuni, distolga da loro l’attenzione che meritano per il loro coraggio in questa e in altre battaglie.

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