Occhi puntati sul voto indiano

L’India affronta il primo turno delle sue elezioni parlamentari. È uno dei massimi appuntamenti politici del 2024. È importante quasi quanto le elezioni USA, più di quelle del Parlamento europeo. Se non altro per i numeri. L’America rimane la superpotenza numero uno sul piano economico e militare; l’India ha la popolazione più vasta del pianeta e si candida ad essere «la prossima Cina» in quanto a dinamismo economico. È anche una superpotenza unica per la sua posizione geopolitica: ha cercato di tenersi fuori dalla nuova guerra fredda che attanaglia il mondo, si è conquistata un ruolo di punta nel Grande sud globale, al tempo stesso rimane corteggiata da parte degli occidentali.

Il risultato di queste elezioni non sembra lasciare spazio a sorprese. Se si eccettua un’ondata di caldo torrido che rischia di penalizzare l’affluenza alle urne. Dovrebbe vincere per la terza volta il premier in carica, Narendra Modi, con il suo partito nazionalista indù BJP. La riconferma di Modi è circondata da diffidenza, ostilità e perfino qualche punta di allarme in Occidente. Va precisato però di «quale Occidente» si tratta. L’India ha espresso da decenni una élite intellettuale sofisticata: artisti, scrittori, registi cinematografici che sono molto cosmopoliti, praticano un pendolarismo costante fra Delhi, Mumbai, New York e Londra, hanno incarichi universitari in Occidente, pubblicano articoli sui media angloamericani. Questa élite è schierata a sinistra. Pertanto pratica una critica selettiva. Ha tollerato per decenni che la sinistra di Governo – cioè il partito del Congresso della dinastia Gandhi – sprofondasse il Paese nella corruzione e nell’inefficienza burocratica. Quando gli elettori hanno cacciato il partito del Congresso all’opposizione, e Modi è arrivato al potere, l’élite intellettuale progressista ha cominciato a descriverlo come un reazionario retrogrado, un aspirante autocrate, per di più con un’impronta di fanatismo religioso induista. Una sorta di Donald Trump locale con l’aggiunta di yoga e reincarnazione. È diventata la narrazione dominante sui media internazionali, quella che descrive l’India come una ex-democrazia, ormai avviata verso l’autoritarismo: con limiti crescenti alla libertà di espressione, e minacce contro le minoranze, soprattutto quella islamica. Questa descrizione coglie alcuni aspetti della realtà, ma ne dà una versione di parte, faziosa. Non aiuta a capire l’India di oggi. Non fornisce le chiavi del successo di Modi, che sembra capace di allargare il suo consenso oltre le dimensioni delle vittorie precedenti.

L’India rimane una democrazia. Ha una stampa libera, una magistratura indipendente, un Parlamento pluralista, un federalismo che attribuisce poteri notevoli ai suoi Stati bilanciando così le tendenze accentratrici. Modi ha pulsioni autoritarie e più volte ha tentato di ridurre il ruolo dell’opposizione o della stampa, ma non è più prepotente di quanto lo fosse il partito del Congresso della dinastia Gandhi quando aveva il potere. Alcuni suoi provvedimenti hanno preso di mira i musulmani e i cristiani. Questo però s’inserisce in una storia millenaria, in cui l’identità indiana e induista ha combattuto per difendersi contro i monoteismi aggressivi dei colonizzatori. I colonizzatori più brutali e più longevi sono stati i musulmani, non gli inglesi. La dinastia Mughal ha avuto periodi di felice tolleranza alternati con fasi di feroce e brutale repressione dell’induismo. Più di recente, il sogno del Mahatma Gandhi era quello di costruire con l’indipendenza uno Stato laico, non confessionale, accogliente per tutte le fedi religiose; quel sogno fu frantumato dalla decisione della leadership musulmana di fare secessione nel 1947 creando la teocrazia islamica del Pakistan. Da allora l’India vive sotto la minaccia costante di un vicino ostile che si è dotato della bomba atomica, e non esita ad appoggiare il terrorismo. I rapporti con la grossa minoranza musulmana (oltre duecento milioni di persone) vanno visti in questa luce. L’islamofobia di Modi, se di questo si tratta, nasce nel contesto di una indofobia secolare da parte dei musulmani.

Intanto Modi ha rafforzato i suoi consensi sia nel popolo sia nei ceti imprenditoriali. Piace alle caste inferiori e alla diaspora indiana che dirige le multinazionali Big Tech negli USA (sono di origini indiane i chief executive di Microsoft, Google e molte altre aziende). Una ragione è il suo appeal verso l’orgoglio nazionale. Un’altra è il successo – ancora molto parziale – di Modi nella lotta contro la corruzione, lo statalismo, la burocrazia inefficiente e parassitaria. Modi viene dalla piccola borghesia mercantile – a differenza dei Gandhi laurati nelle migliori università inglesi – e crede nell’economia di mercato. È alleato con alcune dinastie del capitalismo, e gli scambi di favori con questi potentati sono controversi. La sua scommessa è che le grandi famiglie del capitalismo indiano possano svolgere per la modernizzazione del Paese un ruolo analogo a quello che ebbero i conglomerati in Giappone e Corea del Sud.

Pur senza approvare tutto quello che Modi sta facendo, è onesto riconoscergli alcuni risultati. Per crescita economica l’India ha sorpassato la Cina l’anno scorso. Il suo peculiare posizionamento geopolitico sta dando frutti. L’India ha spesso scelto la neutralità o la «terza via» sui temi più controversi del momento. Per esempio non ha aderito alle sanzioni occidentali contro la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Mantenere buoni rapporti con Putin le ha consentito di comprare gas e petrolio russo a prezzi convenienti. Al tempo stesso sul piano militare Modi ha proseguito la marcia di avvicinamento all’America, anche in funzione di protezione contro l’espansionismo cinese. Questo ha fatto dell’India la prima candidata al «friend-shoring»: la rilocalizzazione di attività produttive da parte delle multinazionali occidentali al fine di ridurre l’eccessiva dipendenza dalla Cina. Un esempio classico è quello di Apple che sta investendo in nuove fabbriche in India per l’assemblaggio di iPhone. L’elettronica è uno dei settori dove è più visibile il riorientamento delle aziende occidentali, giapponesi e coreane, che vedono nell’India un’utile alternativa a Pechino.

Il prestigio dell’India nel Grande sud globale è fatto di tanti ingredienti. Uno è la stazza demografica, che ne fa il peso massimo tra le Nazioni emergenti. Un altro è la sua diaspora, presente non solo in America ai piani alti di Big Tech ma anche nel Sud-Est asiatico e in Africa. Poi ci sono gli investimenti: le multinazionali indiane pur essendo meno appariscenti di quelle cinesi sono molto presenti in diverse zone del mondo, dal Medio Oriente all’Africa. Infine c’è la storia. Negli anni Sessanta e Settanta l’India sembrava vittima di una trappola della povertà: in seguito è stata protagonista di un formidabile decollo agricolo (oggi è una potenza esportatrice di derrate alimentari) e di exploit in settori avanzati come il software. Quando il Grande sud s’interroga su una possibile «via asiatica allo sviluppo» ha in mente anche l’India, oltre alla Cina. Bisogna augurarsi che la democrazia indiana – così disprezzata in Occidente – diventi un altro modello da esportazione.

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