La crisi di un Paese in bilico tra valori arcaici e desiderio di libertà. La via d’uscita può indicarla solo un movimento nazionale di protesta
L’Iran è impegnato con missili e droni contro quelle che considera minacce esterne e, nel medesimo tempo, applica una durissima repressione dentro i confini nazionali, soprattutto ai danni delle donne. «Donna, vita, libertà». Le parole simbolo della resistenza iraniana campeggiano però nelle strade di Teheran e delle altre città, nonostante gli sforzi di un particolare reparto delle forze dell’ordine. Polizia religiosa, lo chiamano. La sua «missione»: controllare la corrispondenza delle acconciature femminili ai rigidi canoni della tradizione islamica e cancellare le tracce di ogni violazione dei principi tanto cari alla casta sacerdotale. Fu proprio uno di questi reparti, a metà settembre del 2022, ad arrestare Mahsa Amini, una ventitreenne in vacanza con la famiglia nella capitale. Il suo velo leggermente sollevato, contro i severissimi dettami della legge, aveva attratto l’attenzione degli agenti. Pochi giorni dopo Mahsa moriva, sul suo corpo tracce di maltrattamenti e percosse. Ovviamente nessuno credette al decesso per cause naturali ufficialmente proclamato, e così l’Iran vide esplodere la rivolta delle donne.
Il problema si trascinava da tempo, fin dal 1979 quando ancora fresco era il ricordo dell’Iran di Reza Pahlavi, erede delle glorie imperiali del passato, mentre la Repubblica islamica muoveva i primissimi passi. Proprio nel 1979, l’8 marzo, l’Ayatollah Khomeini padre del nuovo Iran teocratico volle celebrare a modo suo la giornata internazionale della donna imponendo come obbligo di legge l’uso del velo. Da tempo le iraniane cercavano di scrollarsi di dosso quei simboli della tradizione più ortodossa che intaccavano la loro libertà individuale. Lo facevano attraverso quelle che il regime considerava provocazioni sovversive: scoprendo il capo, bruciando pubblicamente il velo imposto dal clero e vestendosi di colori vivaci, rinnegando così il lugubre nero che piaceva tanto al regime teocratico. Affrontando l’arresto, il carcere e chissà che altro.
Fin dai suoi esordi la Repubblica islamica dovette fare i conti con uno squilibrio in qualche misura paradossale. Sul territorio dell’antica Persia si fronteggiavano da una parte una società evoluta, con un tasso di scolarizzazione relativamente elevato, una buona struttura tecnologica e una familiarità abbastanza diffusa con il mondo esterno; dall’altra un regime fondato sull’adesione a valori antichi e basati su un’interpretazione arcaica oltre che integralista dei principi religiosi. Naturalmente la liberazione dal regime imperiale, oppressivo, corrotto e imperniato su modelli stranieri, era stata salutata con sollievo, ma a questo elemento positivo la rivoluzione di Khomeini affiancava i rigori della sua visione del rapporto fra religione e società. Il cortocircuito si rivelerà inevitabilmente esplosivo.
Fin dall’inizio fu chiaro che proprio la condizione dell’altra metà del cielo rappresentava l’esempio più eloquente del contrasto fra l’aspirazione a una società libera e aperta e le ristrettezze della gestione teocratica. Ma un sordo brontolio di protesta e rivendicazione attraversava l’intera società, soprattutto le fasce giovanili sempre più aperte al nuovo. Negli anni Novanta si registra una certa attenuazione dei fenomeni, mentre masse crescenti di giovani – e giovani donne – affollano le università e diminuisce l’enfasi patriottica che nel decennio precedente, caratterizzato dalla vittoriosa resistenza dell’Iran e dei suoi pasdaran all’aggressione irachena, aveva pervaso il Paese. Durante quella guerra sanguinosa la Repubblica islamica seppe recuperare, grazie alla tensione patriottica, buona parte del dissenso che aveva accumulato negli anni precedenti.
Ma col volgere del secolo e del millennio il movimento studentesco torna a riempire le piazze. La protesta dei giovani contro la chiusura d’autorità di un giornale riformista viene duramente repressa. A controllare le manifestazioni c’è una polizia dal grilletto facile. Al tempo stesso il Governo clericale nega la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione delle donne, le attiviste reagiscono scendendo nuovamente in strada. Altre proteste trovano terreno nelle difficoltà economiche, in buona parte legate alle sanzioni imposte dagli Stati Uniti per il contrasto sulle attività nucleari del Paese che la Casa Bianca ha incluso nell’«Asse del male». A questo punto si unisce alla protesta dei giovani e delle donne quella dei disoccupati e del proletariato urbano.
Memore della tendenza alla compattazione del Paese che fu registrata ai tempi della guerra irachena, il Governo di Teheran cerca di serrare i ranghi puntando sulla politica estera. L’attuale fase di scontro armato con Israele può essere interpretata anche attraverso questa chiave di lettura. La consacrazione dell’Iran come grande potenza economica e militare, e una visibile corrispondenza con le politiche anti-israeliane di molti Paesi arabi, si affianca al ruolo della Repubblica sciita come punta di lancia contro i sunniti dell’Arabia Saudita per guadagnare punti sul tavolo dell’egemonia regionale. L’intreccio del fattore religioso con quello politico-militare fa valere il suo peso. Ma la storia insegna che i problemi domestici difficilmente possono ricomporsi con politiche di prestigio.
Di fronte alle difficoltà crescenti che investono il Paese qualcuno comincia a chiedersi se la Repubblica islamica abbia ancora qualche chance di sopravvivenza. Certo non potrà cadere per intervento esterno. Per convincere gli iraniani che una simile ingerenza non potrebbe che avvantaggiare la resistenza dello Stato islamico, le conseguenze delle sanzioni economiche si uniscono alle fallimentari esperienze degli interventi occidentali in Iraq, Afghanistan e Libia. Per non considerare il ricordo del colpo di Stato ordito da Washington e Londra nel 1953 contro il Governo Mossadeq, che impedì al Paese di evolvere verso un superamento «laico» della condizione imperiale. Come conferma la guerra contro l’Iraq, gli iraniani non accettano che altri pretendano di occuparsi dei loro problemi. Forse potrà contribuire a risolverli un movimento nazionale di protesta, e sarebbe storicamente assai significativo se a innescare questo movimento fosse proprio «Donna, vita, libertà», lo slogan dettato dal corpo sfigurato di Mahsa Amini.